L’abbandono di auto fuori uso integra il reato ex art. 256 del D. Lgs. n. 152/2006?

Il caso scelto per la rubrica “Dialoghi Penali” e deciso dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 13282/2025 offre l’occasione per verificare se il deposito di un veicolo, fuori uso, in un’area pubblica integri il reato previsto dall’art. 256 co. 1 lett. a) del D. Lgs. n. 152/2006.

La disposizione in esame punisce la gestione di rifiuti non pericolosi, esercitata in assenza di autorizzazione, con l’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da 2.600 euro a 26.000,00 euro.

I fatti

A seguito dell’istruttoria dibattimentale emergeva che l’imputato, operaio alle dipendenze di un’autofficina, riceveva dal proprietario un’autovettura, in pessime condizioni, tali da indurre quest’ultimo a rifiutare la riparazione che appariva antieconomica rispetto al valore del veicolo.

Il proprietario, pertanto, lasciava l’auto senza targa al meccanico che avrebbe recuperato alcuni ricambi, tuttavia, il veicolo, ancora integro, veniva rinvenuto all’interno di un’area pubblica.

Sulla base della ricostruzione esposta è stata emessa sentenza di condanna nei confronti dell’imputato per il reato ex art. 256 co. 1 lett. a) alla pena dell’ammenda.

La pena pecuniaria esclude la possibilità di proporre appello, secondo quanto previsto dall’art. 593 co. 3 c.p.p., introdotto dall’art. 34 del D. Lgs. n. 150/2022.

La disposizione da ultimo richiamata prevede che “sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa“.

Ciò nonostante, contro la decisione, la difesa dell’imputato ha proposto appello, articolato su quattro motivi, riqualificato in ricorso per Cassazione.

Le motivazioni della Corte…

La Suprema Corte di Cassazione, con la decisione in commento, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, ha evidenziato che i veicoli fuori uso, ancorché muniti di targa, sono qualificabili come rifiuti speciali pericolosi se non bonificati mediante l’eliminazione dei materiali inquinanti.

I veicoli fuori uso sono classificati come rifiuti pericolosi (codice CER/EER 160104) sia ai sensi del D. Lgs. n. 22 del 1997 che del vigente D. Lgs. n. 152 del 2006, allorché non siano stati bonificati mediante l’eliminazione dei materiali inquinanti.

Vanno qualificati come veicoli fuori uso e pertanto rifiuti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 209, i veicoli a fine vita, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano ancora muniti di targa, di cui il detentore si sia disfatto ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.

Affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose.

La qualifica di rifiuto pericoloso può venire meno se il veicolo stesso viene privato delle singole componenti pericolose, cosicché lo stesso rimarrà semplicemente un rifiuto speciale non pericoloso.

Differenza tra rifiuto pericoloso e non pericoloso

La valutazione di pericolosità, quindi, non discende automaticamente dall’attribuzione ai veicoli fuori uso del codice CER 16 01 04, ma deriva unicamente dalla sostanziale ed intrinseca pericolosità dei materiali di cui ogni veicolo è composto, con la conseguenza che una volta eliminati gli stessi mediante la “bonifica” del veicolo, lo stesso sarà trattato e gestito come rifiuto non pericoloso.

Un autoveicolo contiene elementi e sostanze liquide necessari al suo funzionamento (ad es. combustibile, batteria, olio motore, liquidi refrigeranti), la cui rimozione viene effettuata tramite operazioni complesse che comportano anche l’impiego di particolari attrezzature per lo smontaggio e che richiedono competenze tecniche specifiche.

Una volta rimossi, i liquidi e le componenti non più utilizzabili dovranno essere gestiti come rifiuti.

Si tratta, inoltre, di attività che, per essere eseguite, richiedono una minima competenza tecnica ed il rispetto di specifiche norme di sicurezza o, quanto meno, di una certa prudenza al fine di evitare danni alle persone o alle cose.

Tali interventi di bonifica risultano ancor più complessi quando le condizioni del veicolo, a causa di precedenti eventi, come, ad esempio, nel caso di danni ingenti alla carrozzeria a seguito di sinistro stradale, rendono meno agevoli le operazioni di movimentazione e di smontaggio delle singole componenti.

La Corte, in motivazione, ha evidenziato, altresì, che l’imputato era consapevole di aver ricevuto un veicolo quale rifiuto, avendo consentito al proprietario di prelevare la targa e i documenti per procedere alla cancellazione dal PRA.

Inoltre, occorre rilevare che la stessa attività di demolizione e recupero di parti di veicoli rientra nella nozione di gestione e smaltimento dei rifiuti.

Revenge porn e problemi di configurabilità

Il caso scelto per la rubrica Dialoghi Penali e deciso dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 11743/2025 offre l’occasione per approfondire un aspetto peculiare del reato di revenge porn, disciplinato dall’art. 612 ter c.p.

La disposizione, introdotta dalla L. n. 69/2019, sanziona la condotta di divulgazione non consensuale di immagini o video sessualmente espliciti.

Il legislatore ha inteso tutelare la libertà di autodeterminazione della persona, l’onore, il decoro, la reputazione, la privacy, nonché l’”onore sessuale” della singola persona.

Il reato è procedibile a querela della persona offesa, che ha sei mesi di tempo per presentarla.

La remissione può essere soltanto processuale. Si procede d’ufficio nei casi di cui al quarto co. dell’art. 612 ter c.p. e, quindi, se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di infermità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Fermo quanto precede, la Suprema Corte ha vagliato il ricorso proposto da un imputato condannato per il reato ex art. 612 ter c.p. con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Milano.

Contro la decisione è stato proposto ricorso per Cassazione per plurimi motivi.

Con il primo motivo, il ricorrente ha censurato la sentenza di condanna rilevando che le foto, delle quali non si contestava il contenuto sessualmente esplicito, non ritraevano la persona offesa. Mancava, nella sostanza, la prova che le predette fossero riferibili alla querelante.

La Corte ha dichiarato inammissibile la censura, evidenziando che la sentenza con argomentazioni logiche ha ricostruito il rapporto intercorso tra l’imputato e la persona offesa, nonché la riferibilità delle foto a quest’ultima.

Inoltre, ha osservato che, anche ove non fosse stata accertata la riconoscibilità della persona le cui parti intime erano ritratte, il delitto sarebbe stato comunque integrato.

La decisione ha rimarcato che la fattispecie penale in esame è collocata nell’ambito di quelle poste a tutela della libertà morale individuale ed è diretta alla protezione della sfera di intimità e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale, che deve ricevere una protezione assoluta, che prescinde dalla concreta riconoscibilità da parte dei destinatari del video o delle immagini della persona le cui parti intime siano rappresentate.

Estinzione del reato per condotte riparatorie, persona offesa e pubblico ministero possono opporsi?

L’istituto disciplinato dall’art. 162 ter c.p. prevede che, per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, il giudice può dichiarare estinto il reato se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato ha riparato integralmente il danno.

I presupposti per ottenere l’estinzione del reato sono due: 1) la riparazione integrale del danno; 2) l’osservanza del limite temporale.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 41899/2024, Sez. V, ha ribadito che i requisiti per l’applicazione dell’istituto sono due, non rilevando l’eventuale opposizione formulata dal P.M. o dal difensore della parte civile.

La decisione ha evidenziato che la disposizione in esame, a differenza di quanto previsto dall’art. 469 c.p.p., non prevede la facoltà in capo al PM e all’imputato di opporsi.


Pertanto, il giudice potrà dichiarare l’estinzione del reato procedibile a querela nell’ipotesi in cui il risarcimento avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e sia integrale, senza che PM e difensore della parte civile possano opporsi.

Giova, infine, rilevare che la disposizione in esame non può essere applicata al reato di stalking ex art. 612 bis c.p., espressamente escluso dall’ultimo comma dell’art. 162 ter c.p.

Regime speciale ex art. 41 bis, può essere imposto ai familiari del detenuto di coprire i tatuaggi durante i colloqui?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 40592/2024 tra origine dall’impugnazione dell’ordinanza di rigetto, emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, che non aveva accolto l’istanza di un detenuto sottoposto al regime speciale ex art. 41 bis.

Il detenuto aveva richiesto la revoca o la modifica delle disposizioni dipartimentali che avevano imposto anche ai suoi familiari, durante lo svolgimento dei colloqui periodici, di coprire i tatuaggi, in quanto attraverso gli stessi potevano essere veicolati messaggi criptici.

Il Tribunale di Sorveglianza aveva ritenuto legittima la prescrizione imposta in quanto, durante i colloqui, ben potevano essere veicolati messaggi verso l’esterno attraverso i tatuaggi, tenuto conto dell’elevata pericolosità dei detenuti sottoposti al regime speciale.

Tatuaggi in regime 41 bis

La Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso evidenziando che le prescrizioni dipartimentali, innegabilmente limitative della libertà individuale, siano giustificate dalla necessità di impedire collegamenti tra detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali e sodali ancora in libertà.

Ne consegue che il detenuto sottoposto al regime ex art. 41 bis dell’ Ord. Pen., proprio per il regime speciale richiamato, può subire ulteriore e specifiche limitazioni purché dirette a contrastare specifici e seri pericoli.

Il differente regime restrittivo rispetto ai detenuti ordinari mira ad impedire che i detenuti “speciali” possano continuare ad impartite direttive agli affiliati in stato di libertà, mantenendo inalterato il sistema criminale.

Risponde del reato di getto pericoloso di cose il sindaco che non interviene nel caso di malfunzionamento di un depuratore Comunale?

Il protagonista della vicenda giudiziaria vagliata dalla Suprema Corte di Cassazione è un Sindico chiamato a rispondere della contravvenzione ex art. 674 c.p. (𝗴𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝘀𝗲), in quanto un considerevole quantitativo di reflui provenienti dall’impianto di depurazione comunale finivano in mare, imbrattando le acque marine.

La sentenza di condanna, confermata in appello, veniva impugnata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione che dichiarava inammissibile il ricorso del sindaco, rilevando che, “in base alla disciplina sugli enti locali, i dirigenti hanno un dovere di controllo limitato al corretto esercizio della funzione di programmazione generale e, quanto al sindaco, dei compiti di ufficiale del governo, restando esclusa la responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da problemi di carattere tecnico-operativo”.

L’art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti amministrativi dell’ente di autonomi poteri organizzativi e dunque permane comunque in capo al sindaco, quale figura politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate.

Egli ha, inoltre, il 𝗱𝗼𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮𝗿𝘀𝗶 𝗾𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗴𝗹𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗻𝗼𝘁𝗲 𝘀𝗶𝘁𝘂𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶, 𝗻𝗼𝗻 𝗱𝗲𝗿𝗶𝘃𝗮𝗻𝘁𝗶 𝗱𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶𝗻𝗴𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗲𝗱 𝗼𝗰𝗰𝗮𝘀𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶 𝗲𝗺𝗲𝗿𝗴𝗲𝗻𝘇𝗲 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗶𝗰𝗼-𝗼𝗽𝗲𝗿𝗮𝘁𝗶𝘃𝗲, 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗼𝗻𝗴𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝘀𝗮𝗹𝘂𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲 𝗼 𝗹’𝗶𝗻𝘁𝗲𝗴𝗿𝗶𝘁à 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗺𝗯𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲.

La Corte ha evidenziato che, nonostante il primo cittadino fosse a conoscenza delle problematiche discendenti dal cattivo funzionamento dell’impianto di depurazione nonché delle possibile conseguenze sull’ambiente, ha omesso ogni intervento diretto a porre rimedio alla situazione di pericolo, originata dai ripetuti sversamenti di reflui in mare.

Il reato di getto pericoloso di cose è un reato contravvenzionale spesso contestato anche a società che, a seguito di complesse lavorazioni, emettono fumi molesti o emissioni odorigene nocive per la salute umana.

Nel caso di fumi o emissioni odorigine è indubbio che l’accertamento tecnico necessario per la contestazione del reato sia particolarmente complesso anche per la durata delle predette e per la difficile individuazione delle fonti allorquando più attività industriali si trovino nella stessa area.

Nell’ipotesi di una contestazione per getto pericoloso di cose è opportuno rivolgersi immediatamente ad un Avvocato Penalista.