Chi sono

Un avvocato penalista a Salerno…

Mi chiamo Fabio Torluccio, sono un avvocato, mio padre desiderava che lo fossi, ma quando, dopo la maturità, mi sono trovato a scegliere se iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza più di un dubbio mi ha assalito.

I cinque anni trascorsi sui libri e la lunga gavetta post-universitaria hanno forgiato il mio carattere. Pian piano, giorno dopo giorno, ho compreso che l’esercizio della professione non è un lavoro, è una missione. Porti con te ogni giorno i problemi dei clienti, i dubbi sull’esito di un processo e, soprattutto, accetti i tempi di una giustizia lenta, troppo lenta.

Se i problemi sono tanti, è anche vero che quando vinci e, nel mio caso specifico, quando ottieni un’assoluzione, senti che giustizia è stata fatta.

Sono un avvocato penalista a Salerno, un penalista semplificando, uno che non dorme la notte, che studia sempre, che cerca la soluzione a casi, apparentemente impossibili. Uno che il lunedì difende un proprio assistito a Napoli e il martedì entra in un’aula del Tribunale di Milano.

Sono un avvocato che corre, corre sempre, cercando di dare il massimo, garantendo ad ogni assistito un processo equo e giusto, uno che cerca di limitare i danni quando sa che c’è poco da fare.

Un avvocato non può che essere uno studioso, uno che divora i libri, uno pronto a ragionare, uno che cerca nelle fredde carte processuali la soluzione, anche quando non sembra esserci più la speranza.
Qualcuno mi ha detto che sono affidabile, qualcuno che sono furbo, qualcuno che sono cinico.

È vero, ogni sostantivo racconta qualcosa di me, in realtà sono uno che non si ferma mai, che fa quello che deve fino alla fine.

Se il diritto penale è la mia prima passione, ne coltivo un’altra da tempo. Sono un volontario, impegnato da sempre nell’ assistenza agli bisognosi e nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Questa seconda passione mi ha portato con un gruppo di amici a creare gli Specialisti del Non Profit, un team di esperti che svolge attività di informazione, formazione e assistenza nei confronti degli Enti del Terzo Settore.

Volevo presentarmi in modo classico, ma non fa parte di me.

Avvocato penalista Salerno

La falsa attestazione nel CUD integra il reato di falso ideologico?

Il protagonista della vicenda giudiziaria che sto per raccontarvi è il legale rappresentante di una SRL unipersonale chiamato a rispondere davanti all’autorità giudiziaria del reato di falso ideologico ex art. 483 c.p. per aver attestato falsamente all’interno del CUD di aver corrisposto al dipendente il TFR.

In primo grado l’imputato veniva assolto dal reato di falso ideologico in quanto alla certificazione unica non veniva attribuita la qualità di atto pubblico.

La sentenza veniva ribaltata dalla Suprema Corte di Cassazione che, con la pronuncia n. 36773/2023, ha ritenuto che “la falsa attestazione contenuta nel CUD incide direttamente sul conseguente atto dell’amministrazione finanziaria (connesso alla determinazione delle imposte), sebbene formato per uno scopo diverso da quello di conferire pubblica fede alle attestazioni del privato.

Nello specifico, è stato osservato che il CUD è un documento fiscale che attesta i redditi percepiti nell’anno precedente; viene rilasciato dall’INPS o dal datore di lavoro o dal committente entro il 16 marzo di ogni anno e viene poi trasfuso nella relativa dichiarazione dei redditi.

La certificazione unica in sé non è atto pubblico.

La giurisprudenza peraltro ha già avuto modo di precisare come la disciplina in materia (art. 4 D.P.R. n. 322 del 1998) non conferisce alcun profilo pubblicistico all’attività del sostituto di imposta, che opera la ritenuta e rilascia la certificazione unica.

Tant’è che la relativa controversia, in ordine alla legittimità di una ritenuta fiscale di acconto, anche se è devoluta alle commissioni tributarie (dovendo essere decisa con efficacia di giudicato e nel contraddittorio con l’amministrazione finanziaria) rimane comunque una controversia tra privati.

Ne discende che quanto riportato nel CUD produce effetti sulla conseguente tassazione applicata al contribuente e, quindi, sul contenuto di un atto che, seppur redatto per uno scopo diverso da quello di conferire ad essi pubblica fede, ha comunque attitudine ad assumere rilevanza giuridica e un valore probatorio interno alla pubblica amministrazione.

La grande truffa del c.d. Bonus Cultura

La vicenda vede protagonisti i titolari di una libreria che sistematicamente convertivano in denaro il c.d. Bonus Cultura di migliaia di diciottenni che erano ben felici di poter disporre liberamente di una somma in contanti.

L’attività truffaldina era ben organizzata e si basava sulla simulazione di acquisti mai compiuti, sul trasferimento indebito dei bonus o dei voucher validati dall’avente diritto all’intermediario e da questi al simulato fornitore, sull’attestazione falsa da parte di questi di aver ceduto dei libri ai titolari del bonus, sull’inserimento della relativa dicitura nella piattaforma, sulla ripartizione dei proventi nelle percentuali pattuite.

La Suprema Corte di Cassazione ha dovuto vagliare se le condotte descritte nella parte che precede potessero integrare il reato di truffa aggravata ex art. 640 bis c.p. ovvero l’illecito amministrativo di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter co.2 c.p.

La disposizione da ultimo citata ha natura residuale rispetto al reato di truffa e punisce le condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate dal silenzio antidoveroso, da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione delle somme non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 37661/2023 ha osservato che nella vicenda de qua le complesse attività realizzate per la conversione in denaro del Bonus cultura, simulando l’acquisto di beni e servizi consentiti dalla legge da parte di soggetti accreditati, certamente integrano la fattispecie della truffa, attesa la presenza di plurimi raggiri e artifici posti in essere dagli autori del reato, idonei ad indurre in errore l’ente erogatore.

Danno da emotrasfusione: quali misure la struttura sanitaria deve adottare per andare esente da responsabilità civile?

Il tema di cui oggi voglio parlarvi anima da tempo le aule di giustizia.

La domanda giudiziale di risarcimento dei danni subiti a causa di malattia (epatopatia HCV) contratta in seguito ad emotrasfusione, eseguita in ospedale, impone differenti considerazioni in tema di riparto dell’onere della prova.

Il paziente danneggiato per ottenere una pronuncia di accertamento della responsabilità della struttura sanitaria dovrà provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia e, infine, allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato.

La struttura sanitaria, invece, per ottenere una decisione di rigetto della domanda proposta dal paziente, dovrà dimostrare che alcun inadempimento vi è stato o che comunque non ha determinato alcun danno al paziente.

Infine, potrà andare esente da responsabilità, dimostrando che l’inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa ad essa non imputabile.

Di recente, con la sentenza n. 26091/2023, la Suprema Corte di Cassazione ha affrontato un caso spinoso in tema di emotrasfusioni, cassando la pronuncia di merito che aveva escluso la responsabilità della struttura sanitaria.

Invero, il giudice di merito aveva rigettato la richiesta di risarcimento in favore del paziente in quanto quest’ultimo non aveva dimostrato il nesso di causalità tra comportamento del sanitario e danno lamentato.

Il Supremo Consesso, come anticipato, ha censurato la decisione, osservando che l’onere di dimostrare l’insussistenza del nesso di causalità grava sulla struttura.

Nello specifico, la decisione ha evidenziato che la responsabilità della struttura sanitaria può venir meno soltanto se la stessa dimostri che l’infezione del paziente è stata contratta altrove e che le procedure di acquisizione e perfusione del plasma sono state conformi alla normativa di settore.

Infezioni nosocomiali e responsabilità della struttura sanitaria…

Il tema della responsabilità della struttura sanitaria per le infezioni contratte dal paziente all’interno dell’ospedale o in occasione di prestazioni sanitarie merita un approfondimento all’interno della rubrica dialoghi penali.

Accade, anche con una certa frequenza, che i pazienti, durante il ricovero ospedaliero, contraggano infezioni e, pertanto, risulta rilevante individuare gli obblighi che ricadono sulla struttura sanitaria che, ove assolti, escludono l’addebito di una responsabilità civile.

Tra le prestazioni connaturate al rapporto obbligatorio di spedalità rientra l’obbligazione di garantire l’assoluta sterilità non soltanto dell’attrezzatura chirurgica ma anche dell’intero ambiente operatorio nel quale l’intervento ha luogo, con la precisazione che la sterilizzazione della sala operatoria e dei ferri chirurgici è compito che non grava direttamente (solo) sul chirurgo operatore, bensì (anche) sulla struttura sanitaria.

Ne discende che sulla struttura sanitaria ricade l’onere di impedire l’insorgenza di un’infezione nosocomiale, che non può considerarsi un fatto né eccezionale, né difficilmente prevedibile.

Il tema è, poi, governato dagli ordinari principi sul riparto dell’onere probatorio in materia di responsabilità sanitaria secondo cui spetta al paziente provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre alla struttura sanitaria compete la prova di aver adempiuto esattamente la prestazione o la prova della causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione.

Nello specifico, la struttura sanitaria per andare esente da responsabilità dovrà dimostrare:

  1. l’adozione di tutte le cautele prescritte dalle vigenti normative e dalle leges artis, onde scongiurare l’insorgenza appunto di patologie infettive a carattere batterico;
  2. con riferimento alla prestazione sarà necessario attuare il necessario e doveroso trattamento terapeutico valutando se, nel caso specifico, sia stata praticata una corretta terapia profilattica pre e post-intervento;

La responsabilità potrà essere esclusa anche nell’ipotesi in cui venga dimostrato che l’infezione derivi da un fattore eccezionale e, pertanto, non prevedibile.

Soltanto tal caso ricorrerà la cd. causa non imputabile ex art. 1218 c.c.

Passando al caso specifico dell’infezione nosocomiale deve rilevarsi che non integra un fattore causale atipico ed eccezionale, trattandosi, anzi di uno dei rischi tipici e prevedibili da tener in conto in caso di non brevi permanenze presso i reparti di terapia intensiva.

E’ pur vero che non può essere azzerato il rischio di infezioni, tuttavia, la struttura sanitaria per andare esente da responsabilità dovrà dimostrare di aver approntato in concreto tutto quanto necessario per la perfetta igiene dei luoghi di lavoro e soprattutto della sala operatoria.

E-mail denigratoria inviata al datore di lavoro: è sempre diffamazione?

Prima di presentarvi il caso affrontato dal Supremo Consesso con la sentenza n. 31729/2023, è opportuno delineare i caratteri peculiari del reato di diffamazione disciplinato dall’art. 595 c.p.

Gli elementi costitutivi del reato sono tre:

  • offesa all’altrui reputazione;
  • assenza dell’offeso;
  • comunicazione a più persone;

Per reputazione si intende l’integrità morale della persona che può essere lesa da espressioni offensive percepite, come previsto dalla disposizione in esame, anche da soggetti terzi. E’ peraltro necessario che l’offeso non sia presente. E’ intuibile che il soggetto agente deve agire con l’intenzione di offendere, in quanto, diversamente, non sarà integrato l’elemento soggettivo del reato.

Il dolo è generico, essendo sufficiente la mera percezione, rapportata all’uomo medio, della capacità offensiva delle espressioni adoperate, anche senza specifica intenzione di offendere l’altrui reputazione, con la volontà di usare espressioni offensive nella consapevolezza (anche implicita) della loro astratta idoneità a ledere l’altrui reputazione, concretatasi nella coscienza e volontà dell’azione diffamatoria.

La vicenda decisa dal Supremo Consesso si è verificata all’interno di un contesto aziendale.

Una dipendente ha inviato un’ e-mail al capo e ai superiori sostenendo che il primo avesse dimostrato con scelte errate la propria inefficienza e la mala gestio nella conduzione di un impianto di carburante.

Nello specifico, nel corpo della comunicazione veniva riportato “…purtroppo lei e il suo staff, con incoscienza, avete continuato imperterriti a sottovalutare i più elementari adempimenti“.

In primo grado veniva emessa sentenza di condanna confermata dal giudice di appello per il reato di diffamazione, atteso che le espressioni contenute nella e-mail venivano considerate particolarmente offensive.

Al contempo, i giudici non riconoscevano la condotta scriminata (esclusione dell’antigiuridicità della condotta) dal legittimo esercizio del diritto di critica ex art. 51 c.p. per la veemenza e intensità delle espressioni utilizzate.

Affinché possa ricorrere la scriminante del diritto di critica sono richiesti tre elementi:

  • veridicità dei fatti;
  • pertinenza degli argomenti;
  • continenza espressiva;

Se i primi due concetti sono di facile comprensione, occorre soffermarci sul terzo, anche perché la Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ritenendo che la condotta non abbia superato i limiti della continenza espressiva.

La continenza sostanziale, o “materiale”, attiene alla natura e alla latitudine dei fatti riferiti e delle opinioni espresse, in relazione all’interesse pubblico alla comunicazione o al diritto-dovere di denunzia: essa si riferisce, dunque, alla quantità e alla selezione dell’informazione in funzione del tipo di resoconto e dell’utilità/bisogno sociale di esso.

La continenza formale attiene, invece, al modo con cui il racconto sul fatto è reso o il giudizio critico esternato, e cioè alla qualità della manifestazione: essa postula, quindi, una forma espositiva proporzionata, “corretta” in quanto non ingiustificatamente sovrabbondante al fine del concetto da esprimere.

Questo significa che le modalità espressive attraverso le quali si estrinseca il diritto alla libera manifestazione del pensiero, con la parola o qualunque altro mezzo di diffusione, di rilevanza e tutela costituzionali (ex art. 21 Cost.), postulano una forma espositiva corretta della critica – e cioè astrattamente funzionale alla finalità di disapprovazione – senza trasmodare nella gratuita e immotivata aggressione dell’altrui reputazione.

La Suprema Corte nell’accogliere il ricorso proposto dall’imputata ha osservato che nello scrutinio diretto della continenza si deve tener conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare sei i toni usati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano gratuiti e immotivatamente aggressivi dell’altrui reputazione, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato e al concetto da esprimere.

Nel caso di specie, il tenore della mail redatta dall’imputata non appare aver superato tali limiti, dal momento che le espressioni usate, sia pur fortemente critiche nei confronti della persona offesa, non sono scurrili o offensive; esse piuttosto appaiono tese a criticare la gestione dell’amministratore, evidenziando quelle che erano delle marcate inadempienze nella gestione del distributore, mettendone a conoscenza i superiori.

Sospensione con messa alla prova e illecito edilizio: l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato è elemento costitutivo?

L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova è stato introdotto dalla L. n. 67/2014, a seguito della condanna del nostro paese pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo (sentenza Torreggiani c. Italia) per il sovraffollamento carcerario.

La misura, secondo quanto previsto dall’art. 168 bis c.p., si applica i reati con pena edittale fino a 4 anni di reclusione sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria nonché a quelli indicati analiticamente al secondo co. dell’art. 550 c.p.p. ovverosia alle fattispecie penali per le quali è prevista la citazione diretta a giudizio.

L’imputato può, anche mediante il proprio difensore di fiducia purché munito di procura speciale, chiedere al giudice la sospensione del procedimento penale con affidamento al servizio sociale per svolgere un’attività di volontariato presso una struttura, da individuarsi di concerto con l’UEPE.

Inoltre, il secondo co. dell’art. 168 bis. c.p. prevede oltre allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità anche la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.

Lo svolgimento con esito positivo del periodo di messa alla prova e l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato consentono all’imputato di ottenere una pronuncia di estinzione del reato.

La misura è preclusa ai delinquenti abituali, professionali e per tendenza; può invece essere richiesta dai recidivi.

La riforma Cartabia ha ampliato l’ambito di applicazione della messa alla prova, senza modificare il limite di pena fissato dall’ art. 168 bis c.p.

Quanto alla natura dell’istituto, è mista dal momento che se l’art. 168 bis c.p. individua le condizioni oggettive e soggettive di applicabilità, già evidenziate nella parte che precede, l’art. 464 bis c.p.p. affida al giudice il potere di stabilire il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi alle condotte riparatorie o risarcitorie devono essere adempiuti; termine che può essere prorogato, su istanza dell’imputato, per non più di una volta e solo qualora ricorrano gravi motivi.

Ferme tali premesse necessarie alla comprensione dell’istituto, occorre rilevare che l’obiettivo della sua introduzione è quello di ridurre la presenza di condannati negli istituti penitenziari e, al contempo, di contenere il numero dei procedimenti penali pendenti davanti all’Autorità Giudiziaria.

Passiamo ora rapidamente al caso affrontato di recente dalla Suprema Corte di Cassazione che ha fornito l’occasione per esaminare uno dei cardini dell’istituto.

Il Supremo Consesso con la sentenza n. 32454/2023 si è interrogato sulla rilevanza dell’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato prevista dal secondo co. dell’art. 168 bis c.p. con riferimento alla contestazione dei reati di violazione di sigilli ex art. 449 c.p. e abuso edilizio ex art. 44 del D.P.R. n. 380/2001.

La pronuncia ha rilevato che per ritenersi raggiunto l’esito positivo della misura e, quindi, possa dichiararsi l’estinzione del reato per cui si procede, è necessario che l’imputato abbia posto in essere condotte riparatorie volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato.

Nel caso in esame, il giudice, avendo rilevato il mancato ripristino dello stato dei luoghi e/o il mancato rilascio di una sanatoria, ha ritenuto di dover escludere una prognosi favorevole circa l’astensione da parte dell’imputato dalla commissione di reati della stessa tipologia di quelli accertati.

Ne discende che all’interno della misura esaminata le condotte riparatorie sono sicuramente centrali.

Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare è integrato anche se il coniuge debole rinuncia a parte del mantenimento?

Iniziamo velocemente ad inquadrare la fattispecie penale di “violazione degli obblighi di assistenza familiare” disciplinata all’art. 570 c.p.

La disposizione sanziona con la reclusione fino a un anno o con la multa da 103 euro a 1.032 euro la condotta di chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla responsabilità genitoriale, alla tutela legale o alla qualità di coniuge.

Le dette pene si applicano congiuntamente a chi:

1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del coniuge;

2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa.

Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma.

Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un’altra disposizione di legge.

Il quesito a cui ha dato risposta di recente la Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 30150/2023 è il seguente:

E’ integrato o meno il reato di cui all’art. 570 co. 2 c.p. nell’ipotesi in cui tra i due coniugi venga concordata la rinuncia a parte della somma fissata dal giudice a titolo di mantenimento in favore del figlio minore?

 

Secondo la giurisprudenza l’accordo transattivo relativo alle attribuzioni patrimoniali, concluso tra le parti ai margini di un giudizio di separazione o di divorzio, ha natura negoziale e produce effetti senza necessità di essere sottoposto al giudice per l’omologazione.

Si è precisato che l’autonomia contrattuale delle parti assolve allo scopo di regolare le concrete modalità di adempimento di una prestazione comunque dovuta senza poter però compromettere l’interesse morale e materiale della prole.

Il patto non può escludere o limitare il diritto del minore al mantenimento, essendo il negozio privato concluso vincolante solo tra le parti, ma non tale da legittimare condotte omissive tese a ledere il diritto del minore al conseguimento dei necessari mezzi di sussistenza.

Pertanto, sui genitori grava un’obbligazione legale che non può essere derogata da un accordo tra le parti.

In ragione di quanto esposto, la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla difesa dell’imputato, confermando la pronuncia di condanna emessa dai giudici di merito per il reato di cui all’art. 570 co. 2 c.p.

Responsabilità penale del sanitario per il rilascio di un certificato di idoneità sportiva agonistica a paziente con evidenti problemi cardiaci.

Oggi ci soffermiamo su un caso che ha dato luogo ad un’ipotesi di responsabilità medica per il rilascio di un certificato di idoneità sportiva agonistica ad un paziente con patologie tali da metterne in pericolo la vita.

Il giovane atleta, difatti, poco dopo, è deceduto durante un allenamento per le patologie sottovalutate dal medico che ne aveva attestato l’idoneità.

Il sanitario è stato condannato per il reato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. con sentenza confermata dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Penale n. 20943/2023).

La disposizione prevista dal Codice Penale sanziona la condotta, anche omissiva, di chiunque per colpa e, quindi, a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per l’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, cagiona la morte di una persona.

La pena prevista è compresa tra i 6 mesi e i 5 anni di reclusione.

In ambito medico, l’instaurazione della relazione terapeutica tra medico e paziente è fonte della posizione di garanzia che il primo assume nei confronti del secondo, da cui deriva l’obbligo di attivarsi a tutela della salute e della vita.

“Nel corso del processo era emerso che la vittima si era recata presso un Poliambulatorio al fine di effettuare una visita medico-sportiva, finalizzata al rilascio di un certificato di idoneità sportiva agonistica; l’imputato, medico specialista, lo sottoponeva ad un ecg da sforzo e rilasciava certificazione di idoneità alla pratica agonistica del ciclismo. A distanza di poco più di un anno, il medico visitava nuovamente la vittima, previa esecuzione dell’ecg da sforzo ritenuto nella norma, certificando nuovamente al paziente l’idoneità alla pratica agonistica del ciclismo, richiedendo, tuttavia, di effettuare un “ecocardiogramma per extrasistolia in fase di recupero”. L’atleta si recava dal proprio medico di base per ottenere la prescrizione medica di tale esame, poi eseguito il mese successivo, con diagnosi “dilatazione biventricolare. IM ed IP lievi”.

A distanza di cinque mesi, l’atleta si recava nuovamente dal medico di base, segnalando che da tempo avvertiva affaticamento in occasione dello svolgimento di attività fisiche ; il medico di base, pertanto, gli prescriveva di sottoporsi ad un ECG da sforzo, che la persona offesa prenotava. Prima dell’effettuazione di tale visita, però, l’atleta, dopo 30 minuti del consueto allenamento ciclistico, si accasciava sul ciglio della strada e poco dopo ne era constatato il decesso.

L’autopsia evidenziava che la morte era dovuta ad “arresto cardiaco acuto recidiva d’infarto in soggetto con esiti di pregresso infarto del miocardio antero-settale in sede subendocardica, cardiomiopatia ipertrofico-dilatativa e coronaropatia“.

Sulla base di tale ricostruzione i giudici di merito hanno affermato la penale responsabilità del medico, rilevando che se non avesse rilasciato il certificato di idoneità sportiva agonistica disponendo ulteriori accertamenti, con molta probabilità, non si sarebbe verificato il decesso.

L’imputato, invece, con il proprio comportamento ha violato le regole cautelari alla base della responsabilità per colpa ex art. 43 c.p., che impongono allo specialista di operare secondo diligenza e perizia.

La diagnosi superficiale effettuata è stata ritenuta idonea a determinare l’evento morte che non si sarebbe verificato se lo sportivo non avesse svolto l’allenamento, consentito soltanto in virtù della certificazione rilasciata.

Integra il reato di stalking l’aver costretto qualcuno a chiudere il profilo personale su facebook?

In questa estate, quasi ogni giorno, i mass media raccontano episodi di violenza, che, sempre più spesso, sono perpetrati contro le donne anche mediante il web.

La ripetizione quasi angosciante di casi mi ha spinto a recuperare una sentenza pronuncia di recente dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Penale n. 24360/2023), che si è soffermata sulla relazione tra il reato di stalking e l’uso dei social network, con specifico riferimento a Facebook.

Protagonista è un uomo accusato di plurimi reati commessi ai danni della sua ex, tra i quali quello di stalking disciplinato dall’ art. 612 bis del codice penale.

La disposizione di cui sopra sanziona la condotta connotata da reiterata minaccia o molestia ai danni della vittima che sia tale da determinare alternativamente uno dei tre eventi che seguono: 1) un perdurante e grave stato di ansia o di paura; 2) ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva 3) costringere la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita.

L’imputato che chiameremo Tizio veniva condannato in primo grado con sentenza poi confermata in appello per aver posto in essere plurime condotte di minaccia, denigrazione, pedinamento ai danni della ex, così cagionandole un perdurante e grave stato di ansia e di paura, costringendola anche a cambiare le sue abitudini di vita e, in particolare, a cambiare numero di telefono, a chiudere il suo profilo Facebook e, persino, a evitare di accompagnare il figlio agli allenamenti sportivi.

La Suprema Corte di Cassazione ha rilevato con la pronuncia n. 24360/2023 che la chiusura del profilo personale su Facebook integra, senza dubbio, un’ipotesi di alterazione delle proprie abitudini di vita, in considerazione del ruolo ricoperto dai social, che consentono quotidianamente di esternare il proprio pensiero e di mantenere i contatti con amici e familiari sul web.

I precedenti arresti giurisprudenziali avevano ritenuto penalmente rilevanti le offese, le minacce mediante il web o l’invio di e-mail denigratorie.

Oggi, invece, con questa pronuncia si riconosce ai social network un ruolo centrale nello sviluppo e nella conservazione delle relazioni sociali.

E’ evidente che l’aggressione dei canali di comunicazione virtuale può arrecare un grave pregiudizio alla libertà della persona.

Il differente onere probatorio del reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti rispetto al reato di guida in stato di ebbrezza

Oggi voglio soffermarmi su due reati molto diffusi tra i giovani secondo quanto riportato da recenti statistiche nazionali.

Il primo disciplinato dall’art. 186 del CDS sotto la rubrica “Guida in stato di ebbrezza” sanziona la condotta del conducente che si pone alla guida in stato di alterazione discendente dall’uso di bevande alcoliche.

Il legislatore ha previsto pene di gravità crescente in considerazione del tasso alcolemico rilevato; tale principio è stato seguito anche per l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie conseguenti all’accertamento della guida in stato di ebbrezza.

La giurisprudenza, in modo uniforme, ha rilevato che la prova che la Pubblica Accusa dovrà fornire per ottenere una pronuncia di condanna non deve consistere necessariamente in un accertamento mediante alcool test o prelievo ematico da eseguirsi presso una struttura sanitaria, essendo sufficiente anche la descrizione di meri elementi sintomatici dell’ebbrezza come l’alterazione della deambulazione, l’eloquio sconnesso e, infine, l’alito vinoso.

Il secondo reato è, invece, disciplinato dall’art. 187 del CDS sotto la rubrica “Guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti” e sanziona la guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope.

All’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da uno a due anni.

Se il veicolo appartiene a persona estranea al reato, la durata della sospensione della patente è raddoppiata.

Con riferimento al reato in esame ai fini di un verdetto di condanna sarà necessaria la prova dello stato di alterazione al momento in cui il conducente si è posto alla guida.

Lo stato di alterazione non può essere desunto da elementi sintomatici, essendo richiesto ex art. 187 co. 2 del CDS l’espletamento di un esame tecnico su campioni di liquidi biologici.

Emerge, pertanto, un diverso onere probatorio in capo alla Pubblica Accusa al fine di poter richiedere una pronuncia di condanna.

Principio di recente ribadito dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 22682/2023.