Chi sono

Un avvocato penalista a Salerno…

Mi chiamo Fabio Torluccio, sono un avvocato, mio padre desiderava che lo fossi, ma quando, dopo la maturità, mi sono trovato a scegliere se iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza più di un dubbio mi ha assalito.

I cinque anni trascorsi sui libri e la lunga gavetta post-universitaria hanno forgiato il mio carattere.

Pian piano, giorno dopo giorno, ho compreso che l’esercizio della professione non è un lavoro, è una missione.

Porti con te ogni giorno i problemi dei clienti, i dubbi sull’esito di un processo e, soprattutto, accetti i tempi di una giustizia lenta, troppo lenta.

Se i problemi sono tanti, è anche vero che quando vinci e, nel mio caso specifico, quando ottieni un’assoluzione, senti che giustizia è stata fatta.

Sono un avvocato penalista a Salerno, un penalista semplificando, uno che non dorme la notte, che studia sempre, che cerca la soluzione a casi, apparentemente impossibili.

Uno che il lunedì difende un proprio assistito a Napoli e il martedì entra in un’aula del Tribunale di Milano.

Sono un avvocato che corre, corre sempre, cercando di dare il massimo, garantendo ad ogni assistito un processo equo e giusto, uno che cerca di limitare i danni quando sa che c’è poco da fare.

Un avvocato non può che essere uno studioso, uno che divora i libri, uno pronto a ragionare, uno che cerca nelle fredde carte processuali la soluzione, anche quando non sembra esserci più la speranza.
Qualcuno mi ha detto che sono affidabile, qualcuno che sono furbo, qualcuno che sono cinico.

È vero, ogni sostantivo racconta qualcosa di me, in realtà sono uno che non si ferma mai, che fa quello che deve fino alla fine.

Se il diritto penale è la mia prima passione, ne coltivo un’altra da tempo. Sono un volontario, impegnato da sempre nell’ assistenza agli bisognosi e nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Questa seconda passione mi ha portato con un gruppo di amici a creare gli Specialisti del Non Profit, un team di esperti che svolge attività di informazione, formazione e assistenza nei confronti degli Enti del Terzo Settore.

Volevo presentarmi in modo classico, ma non fa parte di me.

Avvocato penalista Salerno

L’abbandono di auto fuori uso integra il reato ex art. 256 del D. Lgs. n. 152/2006?

Il caso scelto per la rubrica “Dialoghi Penali” e deciso dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 13282/2025 offre l’occasione per verificare se il deposito di un veicolo, fuori uso, in un’area pubblica integri il reato previsto dall’art. 256 co. 1 lett. a) del D. Lgs. n. 152/2006.

La disposizione in esame punisce la gestione di rifiuti non pericolosi, esercitata in assenza di autorizzazione, con l’arresto da tre mesi a un anno o con l’ammenda da 2.600 euro a 26.000,00 euro.

I fatti

A seguito dell’istruttoria dibattimentale emergeva che l’imputato, operaio alle dipendenze di un’autofficina, riceveva dal proprietario un’autovettura, in pessime condizioni, tali da indurre quest’ultimo a rifiutare la riparazione che appariva antieconomica rispetto al valore del veicolo.

Il proprietario, pertanto, lasciava l’auto senza targa al meccanico che avrebbe recuperato alcuni ricambi, tuttavia, il veicolo, ancora integro, veniva rinvenuto all’interno di un’area pubblica.

Sulla base della ricostruzione esposta è stata emessa sentenza di condanna nei confronti dell’imputato per il reato ex art. 256 co. 1 lett. a) alla pena dell’ammenda.

La pena pecuniaria esclude la possibilità di proporre appello, secondo quanto previsto dall’art. 593 co. 3 c.p.p., introdotto dall’art. 34 del D. Lgs. n. 150/2022.

La disposizione da ultimo richiamata prevede che “sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa“.

Ciò nonostante, contro la decisione, la difesa dell’imputato ha proposto appello, articolato su quattro motivi, riqualificato in ricorso per Cassazione.

Le motivazioni della Corte…

La Suprema Corte di Cassazione, con la decisione in commento, nel dichiarare l’inammissibilità del ricorso, ha evidenziato che i veicoli fuori uso, ancorché muniti di targa, sono qualificabili come rifiuti speciali pericolosi se non bonificati mediante l’eliminazione dei materiali inquinanti.

I veicoli fuori uso sono classificati come rifiuti pericolosi (codice CER/EER 160104) sia ai sensi del D. Lgs. n. 22 del 1997 che del vigente D. Lgs. n. 152 del 2006, allorché non siano stati bonificati mediante l’eliminazione dei materiali inquinanti.

Vanno qualificati come veicoli fuori uso e pertanto rifiuti, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 24 giugno 2003, n. 209, i veicoli a fine vita, indipendentemente dal fatto che gli stessi siano ancora muniti di targa, di cui il detentore si sia disfatto ovvero abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi.

Affinché un veicolo dismesso possa considerarsi rifiuto pericoloso è necessario non solo che esso sia fuori uso, ma anche che contenga liquidi o altre componenti pericolose.

La qualifica di rifiuto pericoloso può venire meno se il veicolo stesso viene privato delle singole componenti pericolose, cosicché lo stesso rimarrà semplicemente un rifiuto speciale non pericoloso.

Differenza tra rifiuto pericoloso e non pericoloso

La valutazione di pericolosità, quindi, non discende automaticamente dall’attribuzione ai veicoli fuori uso del codice CER 16 01 04, ma deriva unicamente dalla sostanziale ed intrinseca pericolosità dei materiali di cui ogni veicolo è composto, con la conseguenza che una volta eliminati gli stessi mediante la “bonifica” del veicolo, lo stesso sarà trattato e gestito come rifiuto non pericoloso.

Un autoveicolo contiene elementi e sostanze liquide necessari al suo funzionamento (ad es. combustibile, batteria, olio motore, liquidi refrigeranti), la cui rimozione viene effettuata tramite operazioni complesse che comportano anche l’impiego di particolari attrezzature per lo smontaggio e che richiedono competenze tecniche specifiche.

Una volta rimossi, i liquidi e le componenti non più utilizzabili dovranno essere gestiti come rifiuti.

Si tratta, inoltre, di attività che, per essere eseguite, richiedono una minima competenza tecnica ed il rispetto di specifiche norme di sicurezza o, quanto meno, di una certa prudenza al fine di evitare danni alle persone o alle cose.

Tali interventi di bonifica risultano ancor più complessi quando le condizioni del veicolo, a causa di precedenti eventi, come, ad esempio, nel caso di danni ingenti alla carrozzeria a seguito di sinistro stradale, rendono meno agevoli le operazioni di movimentazione e di smontaggio delle singole componenti.

La Corte, in motivazione, ha evidenziato, altresì, che l’imputato era consapevole di aver ricevuto un veicolo quale rifiuto, avendo consentito al proprietario di prelevare la targa e i documenti per procedere alla cancellazione dal PRA.

Inoltre, occorre rilevare che la stessa attività di demolizione e recupero di parti di veicoli rientra nella nozione di gestione e smaltimento dei rifiuti.

Revenge porn e problemi di configurabilità

Il caso scelto per la rubrica Dialoghi Penali e deciso dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 11743/2025 offre l’occasione per approfondire un aspetto peculiare del reato di revenge porn, disciplinato dall’art. 612 ter c.p.

La disposizione, introdotta dalla L. n. 69/2019, sanziona la condotta di divulgazione non consensuale di immagini o video sessualmente espliciti.

Il legislatore ha inteso tutelare la libertà di autodeterminazione della persona, l’onore, il decoro, la reputazione, la privacy, nonché l’”onore sessuale” della singola persona.

Il reato è procedibile a querela della persona offesa, che ha sei mesi di tempo per presentarla.

La remissione può essere soltanto processuale. Si procede d’ufficio nei casi di cui al quarto co. dell’art. 612 ter c.p. e, quindi, se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di infermità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Fermo quanto precede, la Suprema Corte ha vagliato il ricorso proposto da un imputato condannato per il reato ex art. 612 ter c.p. con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Milano.

Contro la decisione è stato proposto ricorso per Cassazione per plurimi motivi.

Con il primo motivo, il ricorrente ha censurato la sentenza di condanna rilevando che le foto, delle quali non si contestava il contenuto sessualmente esplicito, non ritraevano la persona offesa. Mancava, nella sostanza, la prova che le predette fossero riferibili alla querelante.

La Corte ha dichiarato inammissibile la censura, evidenziando che la sentenza con argomentazioni logiche ha ricostruito il rapporto intercorso tra l’imputato e la persona offesa, nonché la riferibilità delle foto a quest’ultima.

Inoltre, ha osservato che, anche ove non fosse stata accertata la riconoscibilità della persona le cui parti intime erano ritratte, il delitto sarebbe stato comunque integrato.

La decisione ha rimarcato che la fattispecie penale in esame è collocata nell’ambito di quelle poste a tutela della libertà morale individuale ed è diretta alla protezione della sfera di intimità e della privacy, intesa quale diritto a controllare l’esposizione del proprio corpo e della propria sessualità, in un’ottica di autodeterminazione della sfera sessuale individuale, che deve ricevere una protezione assoluta, che prescinde dalla concreta riconoscibilità da parte dei destinatari del video o delle immagini della persona le cui parti intime siano rappresentate.

Illegittimo conseguimento di ratei di pensione: l’imputato risponde di indebita percezione di erogazioni pubbliche o appropriazione indebita?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” e decisa dalla Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10935/2025, ha consentito di vagliare il tema della qualificazione giuridica della condotta di appropriazione dei ratei di pensione, commessa dopo la morte del beneficiario.

L’imputato, dopo la morte del beneficiario, aveva percepito indebitamente dall’I.N.P.S. 247 ratei di pensione per un importo di circa 99.000,00, prima che l’Ente scoprisse l’illegittimo accreditamento.

Con sentenza confermata dalla Corte di appello di Catanzaro l’imputato è stato condannato per il reato ex art. 316 ter c.p., che sanziona il conseguimento indebito di erogazioni pubbliche ottenute con particolari modalità dell’azione, mediante “utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere” o con “omissioni di informazioni dovute”.

Ne consegue che la condotta ascrivibile all’imputato può essere attiva o omissiva.

L’inerzia o il silenzio possono integrare l’elemento oggettivo del reato de quo a condizione che siano “antidoverosi”, cioè che corrispondano all’omesso adempimento di un obbligo di comunicazione e che ad essi si correli l’erogazione non dovuta.

ll reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316 ter c.p.) differisce da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) per la mancanza dell’elemento dell’induzione in errore, che può anche desumersi dal falso documentale allorché lo stesso, per le modalità di presentazione o per altre caratteristiche, sia di per sé idoneo a trarre in errore l’autorità.

Contro la decisione, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, sollevando differenti motivi di censura.

In particolare, con il ricorso è stata contestata la qualificazione giuridica del reato, ritenendo che la condotta potesse integrare il diverso reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., stante l’assenza di un obbligo giuridico di comunicare il decesso da parte dei prossimi congiunti del beneficiario.

Sul punto, occorre rilevare che l’art. 72 del D.P.R. n. 396/2000 prevede l’obbligo di comunicare la morte di una qualunque persona, non oltre le ventiquattro ore dal decesso, all’ufficiale dello stato civile del luogo dove questa è avvenuta o, nel caso in cui tale luogo si ignori, del luogo dove il cadavere è stato deposto, a carico dei “congiunti” o della “persona convivente con il defunto” (o di un loro delegato) o – in mancanza – della persona “informata” del decesso ovvero, in caso di morte in ospedale, casa di cura o di riposo, collegio, istituto o qualsiasi altro stabilimento, in capo al direttore o a chi sia stato a ciò delegato.

Pertanto, non può ritenersi incombente sui congiunti o, comunque, sulle persone informate del decesso (e, quindi, su colui che è delegato alla riscossione della pensione) l’obbligo di comunicazione di decesso all’INPS, tenuto conto che siffatto obbligo non è imposto ai predetti in relazione al trattamento pensionistico erogato e spettando ad essi unicamente la comunicazione del decesso del congiunto al Comune di appartenenza.

In ragione di tali considerazioni, la condotta contestata non può integrare il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter c.p., potendo, semmai, ravvisarsi gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro.

Il reato di molestia può essere integrato dall’invio di e-mail?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” offre l’occasione per esaminare la configurabilità del reato di molestia o disturbo alle persone ex art. 660 c.p. attraverso l’invio di e-mail.

La fattispecie penale avente natura contravvenzionale sanziona il recare molestia o disturbo alle persone senza alcun valido motivo, commesso in un luogo pubblico o privato nonché per mezzo del telefono.

La condotta dell’autore deve essere sorretta da petulanza o da latro biasimevole motivo, con conseguente dimostrazione, da parte dell’accusa del dolo specifico.

Il bene giuridico tutelato è individuabile nell’ordine pubblico e di riflesso nella salvaguardia del privato leso da comportamenti fastidiosi.

Nel caso in esame, l’imputato, a cui era contestata l’ipotesi contravvenzionale ex art. 660 c.p., aveva inviato alla persona offesa differenti messaggi telefonici mediante il sistema short message system ovvero con il sistema whatsapp, nonché a mezzo e-mail.

Il giudice di Prime Cure, all’esito dell’istruttoria dibattimentale, emetteva sentenza di condanna nei confronti dell’accusato, ritenendo integrato il reato.

Contro la decisione veniva proposto atto di appello, correttamente qualificato come ricorso per cassazione, con il quale venivano sollevati plurimi motivi di doglianza:

  • Violazione di legge e vizio di motivazione per omessa dimostrazione che i messaggi e le comunicazioni fossero state effettuate per motivi molesti;
  • Violazione di legge e vizio di motivazione in quanto la decisione non aveva dato adeguata motivazione circa il diniego del riconoscimento dell’esimente ex art. 131 bis c.p.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 8231/2025) è interessante nella parte in cui ha evidenziato che la configurabilità del reato è esclusa dall’invio di e-mail, anche se occorre operare qualche precisazione.

La disposizione ex art. 660 c.p., come esposto, punisce i comportamenti molesti posti in essere anche attraverso il mezzo del telefono e, pertanto, non sussistono dubbi in ordine alla configurabilità del reato se commesso mediante l’invio di messaggi o chiamate reiterate, che determinano un’immediate interazione tra il mittente e il destinatario.

Sul punto, in precedenza, in un caso analogo, la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 28959/2021) ha osservato “ai fini della configurabilità della contravvenzione de qua, allo strumento del telefono possono essere equiparati altri mezzi di trasmissione, tramite rete telefonica e rete cellulare delle bande di frequenza, di voci e di suoni purchè imposti al destinatario, senza possibilità per lui di sottrarsi alla immediata interazione con il mittente…è, conseguentemente, esclusa, a contrario, l’ipotizzabilità del reato in esame nel caso di molestie recate con il mezzo della posta elettronica, perché in tal caso nessuna immediata interazione tra il mittente ed il destinatario si verificherebbe nè un’ intrusione diretta del primo nella sfera delle attività del secondo… l’ azione del mittente si esaurisce nella memorizzazione di un documento di testo (colla possibilità di allegare immagini, suoni o sequenze audiovisive) in una determinata locazione dalla memoria dell’elaboratore del gestore del servizio, accessibile dal, destinatario; mentre la comunicazione si perfeziona, se e quando il destinatario, connettendosi, a sua volta, all’elaboratore e accedendo al servizio, attivi una sessione di consultazione della propria casella di posta elettronica e proceda alla lettura del messaggio, dunque, contrariamente alla molestia recata con il telefono, alla quale il destinatario non può sottrarsi, se non disattivando l’apparecchio telefonico, nel caso di molestia tramite posta elettronica una tale forzata intrusione nella libertà di comunicazione non si potrebbe verificare, con la necessaria precisazione, imposta dal progresso tecnologico, nella misura in cui esso consente con un telefono “attrezzato” la trasmissione di voci e di suoni in modalità sincrona, che avvertono non solo l’invio e la contestuale ricezione di sms (short messages system), ma anche l’invio e la ricezione di posta elettronica.

La Corte, pertanto, ha escluso le email dal novero degli strumenti mediante i quali può essere consumata la molestia nell’ipotesi in cui la percezione da parte del destinatario del disturbo non sia immediata.

Indebito utilizzo della carta di credito e causa di non punibilità ex art. 649 c.p.

Il caso scelto per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il rapporto tra il reato ex art. 493 ter c.p. e la causa di non punibilità ex art. 649 c.p., vagliato dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 7651/2025.

La disposizione ex art. 493 ter c.p. , collocata nel titolo dedicato ai delitti contro la fede pubblica, sanziona l’utilizzo indebito da parte di chi non è titolare di carte di credito o di pagamento o di qualsiasi documento analogo, al fine di conseguire un ingiusto profitto.

Sono punite anche le condotte di falsificazione, alterazione, cessione e acquisto di strumenti o documenti suddetti, commesse con analoghe finalità.

La fattispecie penale intende salvaguardare sia il patrimonio del titolare della carta di credito o di pagamento sia la corretta circolazione del credito.

Il protagonista della vicenda giudiziaria approdata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione è un ragazzo accusato di aver utilizzato, senza il necessario consenso, la carta di credito del padre, per effettuare un acquisto di soli trenta euro.

L’imputato, condannato in primo grado con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Bologna, decideva di adire la Suprema Corte di Cassazione sollevando tre motivi di censura:

  • Violazione di legge per la mancata applicazione della causa di non punibilità ex art. 649 c.p;
  • Violazione di legge per la mancata applicazione della scriminante ex art. 50 c.p;
  • Violazione di legge per il mancato riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 131 bis c.p.;

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La decisione contiene una puntuale e precisa analisi delle ragioni del diniego del riconoscimento della causa di non punibilità ex art. 649 c.p., che può essere applicata, a talune condizioni, esclusivamente nei confronti degli autori dei reati che offendono il patrimonio, disciplinati all’interno del titolo XIII.

La delimitazione è già di per sé sufficiente ad escludere l’applicabilità della causa di non punibilità al reato previsto dall’art. 493 ter c.p. che, come esposto, è collocato in un titolo diverso ed è preposto anche alla tutela della corretta circolazione del credito.

La natura plurioffensiva del reato preclude anche la possibilità di riconoscere la scriminante del consenso ex art. 50 c.p. in quanto, pur volendo ritenere sussistente il consenso, quest’ultimo non può elidere la lesione del bene giuridico collettivo tutelato dalla disposizione.

La responsabilità penale del titolare della parafarmacia per la vendita di farmaci da parte del dipendente privo dei requisiti di legge

Talvolta banali comportamenti possono determinare una responsabilità penale, per fortuna nel caso esaminato dalla Suprema Corte di Cassazione il proprietario di una farmacia è stato, dopo una travagliata vicenda, assolto.

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 7100/2025, ha vagliato la responsabilità, a titolo di concorso, del proprietario di una parafarmacia per la vendita di farmaci da banco operata da soggetto non abilitato.

L’art. 5 co. 2 del D.L. n. 223/2006 prevede che il soggetto incaricato della vendita abbia conseguito la necessaria abilitazione.

Al titolare è stato contestato il reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p., in quanto la sorella, priva dei requisiti previsti dalla disposizione richiamata, aveva venduto, in sua assenza, due farmaci da banco.

Il Tribunale di Catanzaro ha emesso nei confronti del titolare dell’esercizio commerciale una sentenza ex art. 131 bis c.p.

L’imputato, non condividendo le motivazioni della pronuncia, ha proposto ricorso per Cassazione, censurando la decisione sia per la carenza di prova circa il concorso nel reato che per l’insussistenza dell’elemento soggettivo.

La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, assolvendo l’imputato con la formula “per non aver commesso il fatto”, in quanto l’istruttoria non ha dimostrato che il titolare “avesse determinato, o comunque deliberatamente consentito, l’esecutrice materiale alla commercializzazione dei farmaci, né che avesse impartito direttive affinché lo facesse…”.

La misura cautelare può essere aggravata al soggetto che sui social segue i parenti della vittima?

Il protagonista della vicenda giudiziaria è un uomo accusato di omicidio preterintenzionale che, durante il periodo di sottoposizione alla misura cautelare degli arresti domiciliari con il divieto di comunicazione con persone diverse dai conviventi, veniva sorpreso a seguire sui social i prossimi congiunti della vittima.

Il GIP presso il Tribunale di Messina disponeva l’aggravamento della misura, applicando quella inframuraria, atteso il pericolo di reiterazione della condotta.

A seguito del rigetto dell’appello proposto innanzi al Tribunale di Messina l’imputato adiva la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando che il pericolo di reiterazione era puramente astratto, non potendo discendere soltanto dalla gravità del reato in contestazione.


Vediamo i motivi della decisione.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, evidenziando che il comportamento “intrusivo” del ricorrente può essere agevolmente neutralizzato, bloccando sui social la persona non gradita.

La decisione, inoltre, ha escluso che il pericolo di reiterazione possa desumersi dal titolo di reato, in assenza di ulteriori circostanze indicative della sussistenza della possibilità della commissione di analogo delitto, ritenendo pertanto adeguata la misura degli arresti domiciliari.

Nel caso in esame, le indagini non hanno dimostrato che l’uomo, sottoposto alla misura degli arresti domiciliari all’interno di un’abitazione distante dal luogo di residenza dei parenti della vittima, abbia posto in essere ulteriori comportamenti rispetto al mero utilizzo del social.

Il rapporto tra il reato di ricettazione e quello di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti

Il crescente fenomeno dell’introduzione abusiva di apparecchi telefonici all’interno degli istituti penitenziari ha determinato l’inserimento all’interno del Codice Penale, con l’ art. 9 del D. L. n. 130/2020 (Decreto Sicurezza Bis), dell’art. 391 ter, che sanziona il reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti.

Il co. 3 sanziona la condotta del detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni.

La pena prevista per la condotta suindicata è compresa tra uno e quattro anni di reclusione.

Il co. 3 dell’art. 391 ter c.p. contiene una clausola di riserva, prevedendo che la disposizione si applichi salvo che la condotta integri una fattispecie di reato più grave.

La vicende giudiziaria vede protagonista un detenuto sorpreso con un apparecchio telefonico introdotto abusivamente all’interno della struttura penitenziaria.

A seguito della chiusura delle indagini veniva contestato al detenuto il reato di ricettazione ex art. 648 c.p.

Contro la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando la qualificazione giuridicadel fatto che doveva essere inquadrato nell’ipotesi meno grave ex art. 391 ter c.p.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 4189/2025, ha rigettato il ricorso, ritenendo corretta la qualificazione giuridica operata con la decisione di primo grado e, al contempo, rilevando che l’apparecchio cellulare costituisce una cosa proveniente dal reato ex art. 391 ter c.p.

Ha rilevato, inoltre, che non è stata fornita dalla difesa la prova di un accordo tra il detenuto e il soggetto che ha consegnato l’apparecchio, che avrebbe escluso la configurabilità del reato di ricettazione in luogo di quello previsto dall’art. 391 ter c.p.

La Corte ha ricordato, infine, che la clausola di sussidiarietà inserita nel co 3 della disposizione in esame legittima la qualificazione operata da parte del Giudice di Primo Grado.

Il dipendente pubblico che si allontana dal posto di lavoro per la pausa caffè senza timbrare risponde del reato di truffa aggravata?

La vicenda giudiziaria vede protagonista un dipendente pubblico accusato del reato di truffa aggravata per essersi allontanato, più volte, dal posto di lavoro senza aver timbrato il cartellino.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33015/2024, ha rigettato il ricorso proposto dal difensore dell’imputato avverso la statuizione della Corte di Appello di Trieste che aveva confermato la pronuncia di prescrizione per il reato ex art. 640 co. 2 n.1 c.p..

All’imputato veniva contestato di essersi allontanato, più volte, dal luogo di lavoro per la pausa caffè, senza aver mai timbrato il badge, con conseguente inganno per la P.A. , in quanto in tal modo veniva conteggiato un numero di ore lavorative superiore rispetto a quelle effettivamente prestato, con conseguente profitto per l’autore della condotta e correlato danno per l’Ente.

Con il ricorso per Cassazione venivano sollevati differenti motivi di censura: 1) la pausa caffè senza timbratura doveva ritenersi riconosciuta in quanto il contratto collettivo nazionale consente “brevi refezioni”; 2) le brevi uscite non hanno compromesso lo svolgimento delle funzioni dell’ufficio e il danno quantificato in € 900,00 non integrerebbe l’elemento richiesto dalla fattispecie incriminatrice.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che l’omessa timbratura del dipendente costituisce un artifizio idoneo ad ingannare e ha ribadito che il nocumento può essere integrato anche da poche centinaia di euro.

La ritrattazione della persona offesa è idonea da sola ad escludere l’attualità delle esigenze cautelari?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema della rilevanza della ritrattazione della persona offesa nell’ambito di un procedimento a carico di un uomo (ex compagno della vittima), accusato del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. e di lesioni aggravate ex artt. 582-585 c.p., che aveva indotto il Tribunale del Riesame a disporre la revoca delle misure cautelari applicate in via congiunta.

Il caso origina dall’impugnazione proposta dal PM nei confronti dell’ordinanza emessa del Tribunale che aveva disposto la revoca delle misure cautelari dell’obbligo di presentazione alla p.g., dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento o di comunicazione con la persona offesa.

La decisione aveva escluso l’attualità delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., riconosciute dal provvedimento genetico, in quanto la persona offesa aveva riferito che il partner era cambiato ed era anche ripresa la convivenza.

Non condividendo le motivazioni del riesame, il PM proponeva ricorso per Cassazione evidenziando la manifesta contraddittorietà del provvedimento impugnato nella parte in cui aveva riconosciuto l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa e, poi, in un secondo momento, la credibilità della ritrattazione, omettendo una ricostruzione completa del clima familiare, caratterizzato da un stato di soggezione acclarato, in cui era stata adottata la seconda determinazione di segno opposto.

La Suprema Corte di Cassazione – Sez. VI – con la pronuncia n. 44544/2024 ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza con rinvio al Tribunale competente ex art. 309 co. 7 c.p.p.

Scopriamo insieme le motivazioni…

La pronuncia ha rilevato la manifesta contraddittorietà dell’ordinanza del riesame che ha omesso una ricostruzione completa dei fatti dai quali emergeva un rapporto di soggezione consolidato nel tempo, connotato da violenze e minacce, peraltro confermato anche dal racconto dei familiari della persona offesa.

La vittima, al momento della ritrattazione, si trovava in uno stato di soggezione determinato dalla reiterazione di condotte di abuso perpetrate all’interno del contesto familiare.

La successiva ritrattazione appariva, pertanto, non spontanea ma riconducibile all’insistenza dell’indagato che, peraltro, aveva già anticipato ai carabinieri la ritrattazione della vittima.

Inoltre, la Corte ha censurato l’assenza di una valutazione autonoma circa le esigenze di tutela dell’incolumità della vittima.