Chi sono

Un avvocato penalista a Salerno…

Mi chiamo Fabio Torluccio, sono un avvocato, mio padre desiderava che lo fossi, ma quando, dopo la maturità, mi sono trovato a scegliere se iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza più di un dubbio mi ha assalito.

I cinque anni trascorsi sui libri e la lunga gavetta post-universitaria hanno forgiato il mio carattere.

Pian piano, giorno dopo giorno, ho compreso che l’esercizio della professione non è un lavoro, è una missione.

Porti con te ogni giorno i problemi dei clienti, i dubbi sull’esito di un processo e, soprattutto, accetti i tempi di una giustizia lenta, troppo lenta.

Se i problemi sono tanti, è anche vero che quando vinci e, nel mio caso specifico, quando ottieni un’assoluzione, senti che giustizia è stata fatta.

Sono un avvocato penalista a Salerno, un penalista semplificando, uno che non dorme la notte, che studia sempre, che cerca la soluzione a casi, apparentemente impossibili.

Uno che il lunedì difende un proprio assistito a Napoli e il martedì entra in un’aula del Tribunale di Milano.

Sono un avvocato che corre, corre sempre, cercando di dare il massimo, garantendo ad ogni assistito un processo equo e giusto, uno che cerca di limitare i danni quando sa che c’è poco da fare.

Un avvocato non può che essere uno studioso, uno che divora i libri, uno pronto a ragionare, uno che cerca nelle fredde carte processuali la soluzione, anche quando non sembra esserci più la speranza.
Qualcuno mi ha detto che sono affidabile, qualcuno che sono furbo, qualcuno che sono cinico.

È vero, ogni sostantivo racconta qualcosa di me, in realtà sono uno che non si ferma mai, che fa quello che deve fino alla fine.

Se il diritto penale è la mia prima passione, ne coltivo un’altra da tempo. Sono un volontario, impegnato da sempre nell’ assistenza agli bisognosi e nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Questa seconda passione mi ha portato con un gruppo di amici a creare gli Specialisti del Non Profit, un team di esperti che svolge attività di informazione, formazione e assistenza nei confronti degli Enti del Terzo Settore.

Volevo presentarmi in modo classico, ma non fa parte di me.

Avvocato penalista Salerno

Risponde del reato di getto pericoloso di cose il sindaco che non interviene nel caso di malfunzionamento di un depuratore Comunale?

Il protagonista della vicenda giudiziaria vagliata dalla Suprema Corte di Cassazione è un Sindico chiamato a rispondere della contravvenzione ex art. 674 c.p. (𝗴𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝘀𝗲), in quanto un considerevole quantitativo di reflui provenienti dall’impianto di depurazione comunale finivano in mare, imbrattando le acque marine.

La sentenza di condanna, confermata in appello, veniva impugnata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione che dichiarava inammissibile il ricorso del sindaco, rilevando che, “in base alla disciplina sugli enti locali, i dirigenti hanno un dovere di controllo limitato al corretto esercizio della funzione di programmazione generale e, quanto al sindaco, dei compiti di ufficiale del governo, restando esclusa la responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da problemi di carattere tecnico-operativo”.

L’art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti amministrativi dell’ente di autonomi poteri organizzativi e dunque permane comunque in capo al sindaco, quale figura politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate.

Egli ha, inoltre, il 𝗱𝗼𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮𝗿𝘀𝗶 𝗾𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗴𝗹𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗻𝗼𝘁𝗲 𝘀𝗶𝘁𝘂𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶, 𝗻𝗼𝗻 𝗱𝗲𝗿𝗶𝘃𝗮𝗻𝘁𝗶 𝗱𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶𝗻𝗴𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗲𝗱 𝗼𝗰𝗰𝗮𝘀𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶 𝗲𝗺𝗲𝗿𝗴𝗲𝗻𝘇𝗲 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗶𝗰𝗼-𝗼𝗽𝗲𝗿𝗮𝘁𝗶𝘃𝗲, 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗼𝗻𝗴𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝘀𝗮𝗹𝘂𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲 𝗼 𝗹’𝗶𝗻𝘁𝗲𝗴𝗿𝗶𝘁à 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗺𝗯𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲.

La Corte ha evidenziato che, nonostante il primo cittadino fosse a conoscenza delle problematiche discendenti dal cattivo funzionamento dell’impianto di depurazione nonché delle possibile conseguenze sull’ambiente, ha omesso ogni intervento diretto a porre rimedio alla situazione di pericolo, originata dai ripetuti sversamenti di reflui in mare.

Il reato di getto pericoloso di cose è un reato contravvenzionale spesso contestato anche a società che, a seguito di complesse lavorazioni, emettono fumi molesti o emissioni odorigene nocive per la salute umana.

Nel caso di fumi o emissioni odorigine è indubbio che l’accertamento tecnico necessario per la contestazione del reato sia particolarmente complesso anche per la durata delle predette e per la difficile individuazione delle fonti allorquando più attività industriali si trovino nella stessa area.

Nell’ipotesi di una contestazione per getto pericoloso di cose è opportuno rivolgersi immediatamente ad un Avvocato Penalista.

 

Accertamenti sanitari nel caso di guida in stato di alterazione: possono essere rifiutati?

In occasione di un sinistro stradale il conducente di uno dei veicoli veniva inviato a sottoporsi ad accertamenti per verificare il tasso alcolemico e l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Il conducente si sottoponeva all’esame ematico che dava esito negativo, mentre si rifiutava di fornire un campione di urine e, per tale ragione, veniva tratto a giudizio e condannato per il reato ex art. 187 commi 3 e 8 del D. Lgs. n. 285/1992.

La pronuncia di condanna, confermata in appello, veniva impugnata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione che accoglieva il ricorso, evidenziando che “𝗹’𝟭𝟴𝟳, 𝗰𝗼. 𝟴, 𝗖𝗼𝗱. 𝗦𝘁𝗿𝗮𝗱𝗮 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗮𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮 𝗶𝗹 𝗿𝗶𝗳𝗶𝘂𝘁𝗼 𝗼𝗽𝗽𝗼𝘀𝘁𝗼 𝗮𝗱 𝘂𝗻 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗶𝗰𝗼𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗽𝗿𝗲𝗹𝗶𝗲𝘃𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗮𝗺𝗽𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗯𝗶𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗶 𝗾𝘂𝗮𝗻𝘁𝗼, 𝗽𝗶𝘂𝘁𝘁𝗼𝘀𝘁𝗼, 𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼𝘁𝘁𝗮 𝗼𝘀𝘁𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗼𝘃𝘃𝗲𝗿𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝗮𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗲𝗹𝘂𝘀𝗶𝘃𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗰𝗰𝗲𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝘂𝗻𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼𝘁𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗴𝘂𝗶𝗱𝗮 𝗶𝗻𝗱𝗶𝘇𝗶𝗮𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗴𝗿𝗮𝘃𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗿𝗿𝗲𝗴𝗼𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗲 𝘁𝗶𝗽𝗶𝗰𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝗮”.

Ebbene, poiché anche attraverso l’esame ematico ben poteva essere accertata l’assunzione di sostanza stupefacente, non risulta integrato il “rifiuto” presupposto del reato in contestazione.

La Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della pronuncia con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello.

Nel caso di elevazione di una contestazione analoga è sempre necessario rivolgere ad un avvocato penalista.

Arresti domiciliari e violazione del divieto di allontanamento: quali sono le conseguenze?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 8630/2024 affronta il tema della violazione della prescrizioni degli 𝐚𝐫𝐫𝐞𝐬𝐭𝐢 𝐝𝐨𝐦𝐢𝐜𝐢𝐥𝐢𝐚𝐫𝐢 concernenti il divieto di allontanamento dalla propria abitazione o da un luogo di privata dimora.

L’imputato, sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, veniva colto, a seguito di un controllo, fuori dalla propria abitazione in compagnia di un soggetto detentore di sostanza stupefacente.


La Corte di Appello di Milano disponeva la revoca della misura cautelare degli arresti domiciliari e la sostituzione con la custodia cautelare in carcere ex art. 276 co. 1 ter c.p.p., sottolineando che 𝐥’𝐞𝐩𝐢𝐬𝐨𝐝𝐢𝐨 𝐢𝐧 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐞𝐬𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞𝐫𝐚 𝐠𝐫𝐚𝐯𝐞 in quanto l’imputato non soltanto aveva trasgredito le prescrizioni imposte, ma era stato colto insieme ad uno spacciatore.

Le circostanze emerse escludevano che l’episodio potesse essere considerato di “lieve entità”, unica ipotesi che avrebbe potuto impedire la revoca della misura cautelare in corso e la sostituzione con quella più afflittiva.

Occorre rilevare, infine, che la disposizione ex art. 276 co. 1 ter c.p.p. attua una deroga al principio codificato dall’art. 275 bis c.p.p., che impone sempre la valutazione di adeguatezza della misura rispetto alle esigenze cautelari.

Nel caso di violazione della misura degli arresti domiciliari è necessario contattare immediatamente un avvocato penalista.

Furto e aggravante dell’esposizione alla pubblica fede

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 21837/2022 riguarda un caso di furto di una borsa all’interno di un’autovettura.

Un uomo veniva arrestato e poi condannato per il reato di di furto aggravato dalla esposizione della cosa alla pubblica fede, ex art. 625 c.p., comma 1, n. 7, per avere prelevato una borsa contenente contanti, carte di pagamento e altri effetti personali, contenuta all’interno di un’autovettura di proprietà di terzi.

Non accettando la pronuncia di condanna adiva la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando che la borsa femminile non era da considerare come normale dotazione di un veicolo ed usualmente destinato alla custodia sulla persona del proprietario.


La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il motivo di gravame, richiamando la nozione di pubblica fede: 𝗶𝗹 𝘀𝗲𝗻𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗮𝗳𝗳𝗶𝗱𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘃𝗲𝗿𝘀𝗼 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗲𝘁à 𝗮𝗹𝘁𝗿𝘂𝗶 𝗶𝗻 𝗰𝘂𝗶 𝗰𝗼𝗻𝗳𝗶𝗱𝗮 𝗰𝗵𝗶 𝗱𝗲𝘃𝗲 𝗹𝗮𝘀𝗰𝗶𝗮𝗿𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗮, 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼𝗿𝗮𝗻𝗲𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗻𝗰𝘂𝘀𝘁𝗼𝗱𝗶𝘁𝗮.

Inoltre, accanto ai beni esposti alla pubblica fede per destinazione e consuetudine, si collocano quelli quei beni che in tale condizione si trovino in ragione di impellenti bisogni della vita quotidiana.

L’aggravante di cui all’art. 625 c.p., n. 7, ricorre non solo in relazione all’azione furtiva avente per oggetto l’auto ma anche 𝗮 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗿𝗶𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗴𝗹𝗶 𝗼𝗴𝗴𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗶𝗻 𝗲𝘀𝘀𝗮 𝗰𝘂𝘀𝘁𝗼𝗱𝗶𝘁𝗶 che costituiscono un suo accessorio e che, comunque, non sono facilmente trasportabili dal detentore nel momento in cui si allontana dall’autovettura, tra questi, non è annoverabile la borsa.

Nel caso di contestazione del reato di furto è opportuno contattare un Avvocato Penalista.

 

Guantanamo: il buco nero dei diritti umani

I mass media di tutto il mondo poche ore fa hanno diffuso la notizia dell’accordo intercorso tra tre terroristi, accusati degli attacchi nel 2021 alle Torri Gemelle, e la giustizia militare americana.

Con questo accordo, frutto di trattative durate diversi anni, i tre detenuti si sono dichiarati colpevoli del reato di cospirazione e di circa tremila omicidi, accettando il carcere a vita pur di sfuggire alla pena di morte.

Uno dei tre attentatori, Khalid Shaikh Mohamed, è un ingegnere che ha studiato negli Stati Uniti e, secondo l’accusa, avrebbe elaborato il piano per l’attacco.

Lo avrebbe proposto personalmente a Osama Bin Laden nel 1996 e nel 2001 avrebbe contribuito a metterlo in pratica.

I detenuti, catturati in Pakistan nel 2023, hanno trascorso diversi anni, dapprima, in un istituto penitenziario Cinese, rimasto segreto e, poi, sono stati trasferiti nel Campo di Prigionia di Guantanamo.

Sono rinchiusi, come tanti altri, da circa 20 anni in attesa di un processo, mai iniziato sia per le dimissioni continue di avvocati e giudici, sia perché le confessioni sono state estorte con reiterate torture e, quindi, con evidenza inutilizzabili come mezzo di prova.

Secondo quanto riportato negli atti, la mente dell’attacco alle Torri Gemelle avrebbe subito 183 episodi di waterboarding.

Si tratta di una forma di tortura consistente nell’immobilizzare un individuo in modo che i piedi si trovino più in alto rispetto alla testa e nel versargli acqua sulla faccia in modo che la predetta, entrando dagli orifizi respiratori, stimoli il riflesso faringeo che provoca l’effetto di annegamento.

Le condizioni di Guantanamo sono state definite inumane da chi ha potuto visitare la struttura e, quindi, apertamente lesive dei diritti umani tutelati dalla Convenzioni Internazionali.

Da alcuni la struttura è stato definita “il buco nero dei diritti umani“.

Le continue torture inflitte ai prigionieri hanno causato gravi conseguenze fisiche e psichiche, tali, in alcuni casi, da impedire l’avvio del processo per la sopravvenuta incapacità dell’accusato di parteciparvi in modo consapevole.

All’interno dell’istituto di pena sono transitati, in venti anni, circa 780 detenuti, alcuni sono stati condotti presso la struttura senza un’accusa formale.

Nonostante l’accordo raggiunto tra presunti colpevoli e la giustizia militare, i familiari delle vittime, tempestivamente informati, hanno manifestato il proprio sdegno, in quanto la punizione emessa dall’autorità giudiziaria doveva essere un’altra: la pena di morte.

Fassino e il furto del profumo: può evitare la sentenza di condanna?

Recentemente su tutti i mass-media nazionali si è dato risalto al furto di un profumo Chanel Chance del valore di euro centotrenta commesso all‘ex onorevole Fassino.

Questi si sarebbe appartato all’interno di un negozio dell’aeroporto di Fiumicino e avrebbe nascosto il profumo in una tasca della giaccia, per poi uscire di soppiatto dall’esercizio commerciale senza pagare.

Colto in fragranza di reato dagli addetti alla sicurezza, avrebbe fornito una versione inverosimile dell’accaduto, smentita pochi minuti dopo dalle videoriprese effettuate dalle telecamere presenti all’interno dell’esercizio.

Negli ultimi giorni, un’altra notizia è stata diffusa., con molta probabilità il processo non si terrà!

Vediamo insieme la strategia che la difesa dell’ex onorevole potrebbe adottare per chiudere definitivamente la vicenda, evitando anche un processo pubblico.

Occorre evidenziare che il reato di furto ex art. 624 c.p. sanziona la condotta di chi si impossessa della cosa mobile altrui (nella specie confezione di profumo), sottraendola a chi la detiene, con il fine precipuo di conseguire un ingiusto profitto.

Emerge, pertanto, che la contestazione elevata all’ex onorevole è corretta e risulterebbe anche fornita di una prova consistente dal momento che le telecamere installate nell’esercizio commerciale hanno ripreso tutti i movimenti dell’indagato fino all’uscita dal negozio con in tasca il profumo.

Insomma, la Procura ha tra le mani delle ottime carte per ottenere una pronuncia di condanna.

Tuttavia, il codice penale consente all’indagato di evitare il giudizio penale mediante dei rimedi che hanno l’obiettivo precipuo di ridurre il numero dei processi pendenti.

Mi spiego meglio, ci sono sempre delle scappatoie.

La strategia più rapida e, a mio avviso indolore, è racchiusa nell’art. 162 ter del c.p. che disciplina “l’estinzione del reato per condotte riparatorie” .

Per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, la disposizione richiamata prevede l’estinzione del reato allorquando l’imputato abbia riparato integralmente il danno prima dell’apertura del dibattimento.

Il furto rientra nel novero dei reati per i quali è possibile conseguire l’estinzione in quanto procedibile, salvo ipotesi residuali, soltanto a querela di parte.

Inoltre, si è in una fase ancora embrionale e, quindi, l’indagato è sicuramente in tempo per avvalersene.

L’unico reato, procedibile a querela, per il quale è preclusa è quello disciplinato dall’art. 612 bis c.p.

Anche la difesa di Fassino potrebbe scegliere questo rimedio, risarcendo il danno arrecato al titolare dell’esercizio commerciale mediante l’offerta di una somma di denaro, che dovrà essere congrua/adeguata e che, ove accettata, determinerà immediatamente l’estinzione del reato e, pertanto, la chiusura del processo.

Peraltro, anche nell’ipotesi in cui il danneggiato dovesse ritenere la cifra offerta non congrua l’ultima parola spetterà al giudice.

E’ evidente che poiché il valore del bene sottratto è contenuto, sono alte che probabilità che il processo si chiuda prima di iniziare, con un esito favorevole all’ex onorevole.

Truffa on-line: come difendersi?

Negli ultimi anni il numero delle truffe on-lineè cresciuto esponenzialmente.

Quasi quotidianamente i mass media ci raccontano episodi gravi di sottrazione di denaro mediante l’impiego di mezzi digitali, basti pensare ai numerosi casi di clienti di Posteche ricevono messaggi che comunicano la sussistenza di problemi tecnici.

Il cliente preoccupato clicca sul link, che rimanda a un finto sito internet di Poste, dove è invitato ad inserire i propri dati. Subito dopo l’ignaro titolare del conto verrà invitato ad effettuare un bonifico su un conto “sicuro”, non immaginando che in quel modo avrà perso definitamente i suoi risparmi.

Un caso più eclatante ha riguardato l’influencer C. Ferragni indagata per truffa per aver fatto credere che il corrispettivo per l’acquisto di un panettone sarebbe andato in beneficenza per l’acquisto di un macchinario sanitario, tuttavia, la somma era stata già stanziata.

Questi esempi ci consentono di capire che una truffa può assumere diverse forme.

Va segnalato, peraltro, che il più delle volte, a seguito della sottrazione è impossibile recuperare il bottino.

Le denunce vagliate dalle procure sono centinaia, spesso portano ad una sentenza di condanna dell’autore del reato, ma le percentuali di recupero delle somme sottratte sono basse.

Il reato di truffa, disciplinato all’art. 640 c.p., prevede che “Chiunque con artifizi o raggiri inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito. con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032″.

Pertanto, ai fini dell’integrazione del reato, sono necessari i seguenti elementi:

  • un artifizio ovverosia la dissimulazione della realtà o, in alternativa, un raggio ovverosia una macchinazione volta a far credere che una cosa sia vera;
  • l’artifizio o il raggiro devono essere idonei a far cadere in errore;
  • l’artifizio o il raggiro devono persuadere la vittima a consegnare/dare qualcosa al reo, con conseguente danno per la prima.

Come possiamo difenderci o prevenire la perpetrazione di una truffa on-line?

Di seguito un breve elenco di consigli per ridurre il rischio di essere truffati:

  • Utilizzare software e browser completi ed aggiornati: un buon antivirus può fare la differenza;
  • Scegliere siti certificati e ufficiali;
  • Leggere sempre i commenti e i feedback di altri acquirenti;
  • Utilizzare le app ufficiali dei negozi online;
  • Utilizzare soprattutto carte di credito ricaricabili;
  • Leggere con attenzione i mittenti della mail e il loro contenuto;
  • Contattare subito i canali ufficiali degli istituti di credito nel caso di ricezione di sms di provenienza dubbia.

Diffamazione a mezzo trasmissione televisiva: dove si radica la competenza territoriale?

Oggi il tema è caldo, torniamo ad esaminare il reato di diffamazione ex art. 595 c.p., soffermandoci sulle problematiche connesse all’individuazione del giudice competente per territorio.

I due protagonisti della vicenda giudiziaria venivano tratti a giudizio per il reato di diffamazione aggravata per aver trasmesso un servizio televisivo “Speciale le Iene, delitto Garlasco, la verità di Alberto Stasi” in cui si insinuava un coinvolgimento nell’omicidio di Chiara Poggi della sig.ra S.C., la quale presentava una denuncia/querela per aver subito un’ evidente lesione della reputazione, da cui originava un procedimento penale a carico dell’autore e del conduttore della trasmissione.

Il giudizio penale subiva un immediato arresto in quanto la difesa degli imputati sollevava l’incompetenza del Tribunale di Milano, in favore del Tribunale di Monza, secondo quanto previsto dall’art. 9 co. 1 del c.p.p.

Il giudice, rilevando la sussistenza di un contrasto in giurisprudenza circa l’individuazione della competenza per territorio con riferimento al reato di diffamazione mediante trasmissione radiotelevisive con attribuzione di un fatto determinato, ha rimesso la decisione alla Corte di Cassazione.

Di seguito i due orientamenti contrastanti:

  • in tema di diffamazione con il mezzo delle trasmissioni radiotelevisive, la competenza per territorio deve essere fissata, in applicazione dell’art. 30 co. 5 della L. n. 223/1990, nel foro di residenza della persona offesa;
  • diversamente, eccetto che con riferimento ai soggetti indicati nella norma ovvero per il concessionario privato, la concessionaria pubblica o la persona delegata al controllo della trasmissione, trova applicazione l’art. 9 co. 1 c.p.p.

Deve rilevarsi, altresì, che la Corte Costituzionale con sentenza n. 150/2021 ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 30 co. 4 della L. n. 223/1990, disposizione inscindibilmente collegato al comma 5 richiamato nella parte che precede.

In particolare, l’art. 30 co. 5 della legge citata prevede che “per i reati di cui ai commi 1,2 e 4 del presente articolo si applicano le disposizioni di cui all’art. 21 della L. n. 47/1948. Per i reati di cui al co. 4 il foro competente è determinato dal luogo di residenza della persona offesa.

Vediamo di seguito la decisione della Suprema Corte di Cassazione che ha vagliato i due orientamenti antitetici elaborati in giurisprudenza, partendo dall’analisi della pronuncia della Corte Costituzionale.

La dichiarazione di illegittimità costituzionale del co. 4 dell’art. 30 incide esclusivamente sul trattamento sanzionatorio, senza limitare gli effetti della regola speciale di competenza territoriale che, peraltro, è stata introdotta con la L. del 1990 per tutelare la persona offesa.

La L. del 1990 ha indicato quale criterio del radicamento della competenza territoriale con riferimento alle condotte integranti il reato di diffamazione, commessa in occasione di trasmissione radiotelevisive mediante l’attribuzione di un fatto determinato, il luogo di residenza della persona offesa.

Di contro l’obiettivo dell’intervento costituzionale era quello di apprestare una tutela rafforzata alla libertà di pensiero, minacciata da una sanzione detentiva.

Di conseguenza, sebbene il co. 5 richiami il co. 4 dell’art. 30, non vi è stato alcun intervento diretto a “colpire” il criterio di competenza territoriale che, come esposto, assicura una tutela rafforzata alla vittima e, pertanto, risulta non intaccato dall’intervento costituzionale.

Va rilevato, altresì, che una lettura organica dei differenti orientamenti giurisprudenziali e della sentenza della Consulta consente di affermare che nell’ipotesi di condotta diffamatoria commessa nel corso di una trasmissione televisiva mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la competenza territoriale andrà radicata innanzi la giudice del luogo di residenza della persona offesa.

Composto il contrasto giurisprudenziale, la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 26919/2024 ha indicato la competenza territoriale del Tribunale di Milano, foro della persona offesa del reato.

Maltrattamenti contro familiari o conviventi e stalking: come distinguerli?

Il tema scelto all’interno della rubrica “Dialoghi Penali” affronta il sottile distinguo tra il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi ex art. 572 c.p. e quello di stalking ex art. 612 bis c.p.

La vicenda giudiziaria, che offre l’occasione per esaminare gli elementi di comunanza e quelli di differenziazione tra le due fattispecie, vede protagonista un uomo accusato di reiterate condotte violente nei confronti della compagna, anche alla presenza del figlio minore, proseguite, secondo l’impianto accusatorio, in seguito alla rottura del rapporto.

Condannato in primo grado, con sentenza confermata in appello, per il reato di maltrattamenti, adiva la Suprema Corte di Cassazione, sollevando plurimi motivi di censura.

La Corte, di ufficio, evidenziava la necessità di vagliare la corretta qualificazione dei fatti in contestazione, in ragione di alcuni accadimenti successivi alla cessazione della convivenza.

Invero, il reato ex art. 572 c.p. presuppone che le condotte siano commesse nei confronti di un familiare ovvero nei confronti del convivente.

Tuttavia, come già esposto, alcuni comportamenti vessatori erano perpetrati in un momento successivo alla interruzione del rapporto di convivenza e, pertanto, non poteva essere esclusa a priori la riconducibilità dei predetti alla fattispecie di stalking ex art. 612 bis c.p.

Le due fattispecie hanno in comune la reiterazione di condotte violente, moleste o di minaccia, tuttavia, sono differenti il campo di applicazione e le conseguenze per la vittima.

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 9187/2023, ha annullato la decisione della Corte di Appello rinviando ad altra sezione, in quanto ha ritenuto che la sentenza di merito fosse deficitaria nella parte relativa alla prova dell’elemento oggettivo della convivenza.

Il Giudice di merito dovrà accertare se alcune condotte penalmente rilevanti sono state commesse dopo la cessazione della convivenza.

In tal caso, l’imputato sarà chiamato a rispondere del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. in concorso con quello di stalking. 612 bis c.p., invece, nell’ipotesi in cui la Corte di Appello dovesse ritenere che la relazione si è interrotta in un momento successivo rispetto all’ultimo fatto, il reo risponderà soltanto del primo reato.

Estradizione: il requisito della cittadinanza francese può salvarti dalla consegna?

Dopo una lunga pausa per ricaricare le batterie ripartiamo con un caso molto interessante in tema di estradizione.

Per estradizione si intende la richiesta di consegna di un individuo presente sul territorio a un altro Stato che ne abbia fatto richiesta (estradizione attiva), al fine di dare esecuzione a una pena detentiva (estradizione esecutiva) o a un processo (estradizione processuale).

La vicenda giudiziaria originava dalla richiesta di estradizione ricevuta dalla Corte di Appello di Roma da parte degli Stati Uniti per la consegna di un cittadino francese accusato di aver commesso il reato di sottrazione di minore.

La Corte di Appello di Roma, previa audizione del cittadino francese, accoglieva la richiesta di estradizione.

Il ricorrente, a mezzo del proprio difensore, adiva la Suprema Corte di Cassazione lamentando l’omessa comunicazione della procedura di estradizione alla Francia, quale stato membro dell’Unione Europea, evidenziando la lesione del diritto di cittadinanza.

Nello specifico, l’omessa comunicazione avrebbe impedito alla Francia di richiedere la consegna dell’estradando, al fine di negare la successiva consegna allo stato richiedente (Stati Uniti).

L’art. 696 co. 4 del Codice di Procedura Penale Francese prevede che l’estradizione non può essere accordata quando la persona di cui si chiede la consegna ha la cittadinanza francese.

Inoltre, l’art. 3 del Trattato di estradizione Francia- Stati Uniti stabilisce che se la Francia nega la consegna unicamente per motivi di cittadinanza, lo stato richiedente può avanzare istanza affinché lo stato eserciti l’azione penale.

Peraltro, la giurisprudenza euro-unitaria, in casi analoghi, ha ribadito la necessità di informare lo stato membro in cui la persona ha la cittadinanza.

Comunicazione che, come rappresentato, dalla difesa del ricorrente risultava del tutto assente.

L’obbligo di comunicazione consente, di fatto, allo Stato destinatario (Francia) di emettere un mandato di arresto europeo, chiedendone la consegna per poi esercitare l’azione penale nei confronti dell’accusato.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 21955/2024, ha accolto il ricorso annullandola sentenza impugnata con rinvio per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appello di Roma.

La Corte ha evidenziato la necessità di informare la Francia della pendenza della procedura di estradizione con fissazione di un termine entro il quale dovrà essere emesso il mandato di arresto europeo.

Nell’ipotesi in cui quest’ultima non dovese emetterlo, la Corte di Appello potrà decidere sulla consegna agli Stati Uniti del cittadino francese.