Chi sono

Un avvocato penalista a Salerno…

Mi chiamo Fabio Torluccio, sono un avvocato, mio padre desiderava che lo fossi, ma quando, dopo la maturità, mi sono trovato a scegliere se iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza più di un dubbio mi ha assalito.

I cinque anni trascorsi sui libri e la lunga gavetta post-universitaria hanno forgiato il mio carattere.

Pian piano, giorno dopo giorno, ho compreso che l’esercizio della professione non è un lavoro, è una missione.

Porti con te ogni giorno i problemi dei clienti, i dubbi sull’esito di un processo e, soprattutto, accetti i tempi di una giustizia lenta, troppo lenta.

Se i problemi sono tanti, è anche vero che quando vinci e, nel mio caso specifico, quando ottieni un’assoluzione, senti che giustizia è stata fatta.

Sono un avvocato penalista a Salerno, un penalista semplificando, uno che non dorme la notte, che studia sempre, che cerca la soluzione a casi, apparentemente impossibili.

Uno che il lunedì difende un proprio assistito a Napoli e il martedì entra in un’aula del Tribunale di Milano.

Sono un avvocato che corre, corre sempre, cercando di dare il massimo, garantendo ad ogni assistito un processo equo e giusto, uno che cerca di limitare i danni quando sa che c’è poco da fare.

Un avvocato non può che essere uno studioso, uno che divora i libri, uno pronto a ragionare, uno che cerca nelle fredde carte processuali la soluzione, anche quando non sembra esserci più la speranza.
Qualcuno mi ha detto che sono affidabile, qualcuno che sono furbo, qualcuno che sono cinico.

È vero, ogni sostantivo racconta qualcosa di me, in realtà sono uno che non si ferma mai, che fa quello che deve fino alla fine.

Se il diritto penale è la mia prima passione, ne coltivo un’altra da tempo. Sono un volontario, impegnato da sempre nell’ assistenza agli bisognosi e nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Questa seconda passione mi ha portato con un gruppo di amici a creare gli Specialisti del Non Profit, un team di esperti che svolge attività di informazione, formazione e assistenza nei confronti degli Enti del Terzo Settore.

Volevo presentarmi in modo classico, ma non fa parte di me.

Avvocato penalista Salerno

L’impiegato postale che sottrae il corrispettivo del servizio in contrassegno risponde di peculato?

Il protagonista della vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” è un impiegato postale, con mansioni di responsabile del centro primario di distribuzione, accusato del reato di peculato ex art. 314 c.p. per aver sottratto € 570,00 di incassi per spedizioni con contrassegno.

Il reato di peculato sanziona la condotta di appropriazione di denaro o di una cosa mobile altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio.

Il presupposto è il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile.

La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di condanna di primo grado, rigettando la tesi difensiva che sosteneva l’insussistenza dei presupposti della fattispecie incriminatrice disciplinata dall’art. 314 c.p.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello evidenziando che la condotta poteva integrare gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., in quanto il servizio svolto non aveva natura pubblica e, inoltre, risultava assente in capo all’imputato la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Il reato ex art. 646 c.p. può essere definito una forma di appropriazione non qualificata in quanto l’autore della condotta non deve rivestire alcuna qualifica.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 41788/2024 – Sez. VI, ha riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita, annullando senza rinvio la decisione perché il reato risultava estinto per prescrizione.

Vediamo insieme le motivazione della pronuncia.

In primis, occorre rilevare che il servizio in contrassegno (pagamento al corriere alla consegna del pacco) non è un servizio svolto da Poste in via esclusiva, bensì operato in regime di concorrenza sul mercato.

Pertanto, poiché si tratta di un’attività svolta liberamente sul mercato, da più soggetti, in regime di concorrenza, non è inquadrabile tra i servizi pubblici.

Inoltre, deve rilevarsi che l’imputato preposto all’interno della struttura postale all’annotazione delle somme ricevute, non svolge un’attività riconducibile alla qualifica di pubblico ufficiale in quanto non ha poteri autoritativi né di natura certificativa.

Inoltre, non è riconducibile a quella di incaricato di pubblico servizio dal momento che si tratta di un’attività materiale in esecuzione di ordini di servizio o di prescrizioni impartite da superiori gerarchici.

Regime speciale ex art. 41 bis, può essere imposto ai familiari del detenuto di coprire i tatuaggi durante i colloqui?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 40592/2024 tra origine dall’impugnazione dell’ordinanza di rigetto, emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, che non aveva accolto l’istanza di un detenuto sottoposto al regime speciale ex art. 41 bis.

Il detenuto aveva richiesto la revoca o la modifica delle disposizioni dipartimentali che avevano imposto anche ai suoi familiari, durante lo svolgimento dei colloqui periodici, di coprire i tatuaggi, in quanto attraverso gli stessi potevano essere veicolati messaggi criptici.

Il Tribunale di Sorveglianza aveva ritenuto legittima la prescrizione imposta in quanto, durante i colloqui, ben potevano essere veicolati messaggi verso l’esterno attraverso i tatuaggi, tenuto conto dell’elevata pericolosità dei detenuti sottoposti al regime speciale.

Tatuaggi in regime 41 bis

La Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso evidenziando che le prescrizioni dipartimentali, innegabilmente limitative della libertà individuale, siano giustificate dalla necessità di impedire collegamenti tra detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali e sodali ancora in libertà.

Ne consegue che il detenuto sottoposto al regime ex art. 41 bis dell’ Ord. Pen., proprio per il regime speciale richiamato, può subire ulteriore e specifiche limitazioni purché dirette a contrastare specifici e seri pericoli.

Il differente regime restrittivo rispetto ai detenuti ordinari mira ad impedire che i detenuti “speciali” possano continuare ad impartite direttive agli affiliati in stato di libertà, mantenendo inalterato il sistema criminale.

Sospensione condizionale della pena e obbligo del reo di partecipazione a corso di recupero

L’imputato, protagonista della vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione, è stato condannato, in sede di giudizio abbreviato, alla pena di anni due di reclusione per il reato ex art. 572 co 2. c.p. con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena che, tuttavia, non è stato subordinato all’obbligo ex art. 165 co. 5 c.p.

La decisione è stata impugnata dal Procuratore Generale che evidenziava la violazione dell’art. 165 co. 5 c.p., che subordina il riconoscimento del beneficio de quo alla partecipazione ad un percorso di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati.

La Legge n. 69/2019 ha introdotto per specifiche ipotesi di reato, tra le quali rientra il reato per cui vi è stata condanna, un obbligo a carico del condannato a cui è stato concesso il beneficio.

Quest’ultimo dovrà partecipare ad un percorso di recupero che tenga conto del tipo di reato, della personalità del condannato, del movente e della relazione della vittima con l’autore del reato.

L’obbligo codificato all’art. 165 c.p. ha plurime finalità: a) prevenire il rischio di recidiva; b) tutelare le vittime dirette o potenziali; c) vincolare il giudice in deroga alla discrezionalità prevista dall’ art. 165 co. 1 c.p.; d) consentire all’imputato di operare una scelta libera.

La Corte ha illustrato, annullando la decisione, gli aspetti che il giudice di merito dovrà disciplinare nella pronuncia che concede il beneficio ex art. 165 c.p.

Scopriamoli insieme..

Il giudice della cognizione dovrà verificare che:

1) il reo abbia espresso un consenso libero e informato;

2) il reo abbia indicato un ente/associazione presso la quale verrà svolto il corso;

Nel provvedimento dovrà essere  precisata la durata del percorso, il termine di inizio da far decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza.

Infine, occorrerà indicare le modalità di svolgimento e, al termine, espletata la verifica circa l’esito favorevole del percorso.

 

Il narcotest effettuato sulla sostanza stupefacente è sufficiente per una pronuncia di condanna?

Il protagonista della vicenda giudiziaria è un uomo accusato del reato ex art. 73 co. 5 del D.P.R. n. 309/90.

Veniva tratto in arresto in quanto, a seguito di una perquisizione, veniva trovato in possesso di un quantitativo imprecisato di sostanza stupefacente, sulla quale veniva eseguito in narcotest.

Il narcotest è un esame basato su semplici reazioni chimiche che consente di appurare la natura stupefacente di una sostanza, sebbene non fornisca informazioni circa il principio attivo.

Se il principio attivo può essere definito come l’ingrediente che rende un farmaco efficace, la sua misurazione assume un ruolo centrale per appurare il grado di lesione del bene giuridico tutelato, in quanto un principio attivo prossimo allo zero non potrà arrecare alcuna offesa al bene protetto dalla fattispecie incriminatrice.

La Suprema Corte di Cassazione ha più volte affermato che il narcotest consente di accertare la natura stupefacente della sostanza rinvenuta e unitamente ad altri elementi di prova può confermare l’ipotesi accusatoria circa l’esistenza di un’attività di spaccio.

Il Giudice, difatti, può impiegare nella sua valutazione tutte le circostanze riferite dagli accertatori relative alle modalità di conservazione dello stupefacente, alla disponibilità di denaro, al rinvenimento di sostanze da taglio e, infine, alle condizioni economiche dell’indagato.

Scopriamo insieme se è stato condannato…

L’uomo, a seguito del risultato positivo dell’esame eseguito, che appurava la natura stupefacente della sostanza, veniva condannato, con sentenza confermata in appello.

Proponeva ricorso per Cassazione lamentando l’omesso espletamento di una perizia tossicologica sulla sostanza che avrebbe consentito di rilevare il principio attivo.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso  evidenziando che tale accertamento non era necessario, in quanto il giudice di merito correttamente ha desunto la detenzione ai fini di spaccio dal risultato del narcotest e dalle circostante emerse in dibattimento.

Invero, le deposizioni hanno consentito di rilevare che le modalità di detenzione della sostanza e il quantitativo erano tale da escludere un possesso per fini personali.

Nell’ipotesi di contestazione del reato di spaccio è opportuno rivolgersi ad un avvocato penalista

Stranieri extracomunitari e concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema del riconoscimento dell’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 della L. n. 354/1975 allo straniero extra-comunitario entrato illegalmente nel territorio dello Stato e privo del permesso di soggiorno.

La competenza sulle misure alternative alla detenzione è affidata al Tribunale di Sorveglianza e presuppone che il colpevole sia stato condannato con sentenza definitiva ad una pena per la quale non sia stato concesso il beneficio ex art. 163 c.p.

Tornando al caso vagliato dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 40131/2024, occorre rilevare, in via preliminare, che l’imputato era stato condannato, con sentenza irrevocabile, alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione in ordine ai reati di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanza stupefacente ex art. 73 del D.P.R. n. 309/1990.

Il difensore, tempestivamente, presentava al Tribunale di Sorveglianza di Brescia istanza di affidamento in prova al servizio sociale che, tuttavia, veniva respinta.

Contro la decisione veniva proposto ricorso per Cassazione in quanto la decisione risultava viziata, non avendo tenuto conto che l’istanza conteneva sia l‘indicazione di un domicilio che la dichiarazione di disponibilità di un datore di lavoro, presupposti necessari e indispensabili a fini del riconoscimento della misura alternativa.

Invero, il Tribunale di Sorveglianza emetteva una pronuncia di rigetto in quanto l’istante extracomunitario era entrato irregolarmente nel territorio dello Stato e, al contempo, era privo del permesso di soggiorno.

La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso annullando la decisione del Tribunale di Sorveglianza con rinvio per un’altra valutazione dell’istanza.

Vediamo insieme le motivazioni della pronuncia.

L’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 dell’Ord. Pen. è la principale misura alternativa alla detenzione destinata ad attuare una finalità rieducativa della pena ex art. 27 Cost..

L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue.

Il Tribunale di Sorveglianza, qualora l’interessato si trovi in disagiate condizioni economiche e patrimoniali, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa ovvero la pena sostitutiva nella quale sia stata convertita la pena pecuniaria non eseguita.

Può essere richiesta per condanne fino a 4 anni di reclusione e presuppone:

1) la presenza di un valido domicilio;

2) la dichiarazione di disponibilità di un datore o di un’associazione/ente per lo svolgimento di un’attività socialmente utile di tipo volontaristico;

3) un giudizio positivo sulla personalità del reo successiva alla commissione del reato nella prospettiva di un reinserimento sociale.

La Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata a favore del ricorrente aderendo ad un indirizzo, ormai consolidato, in forza del quale la presenza irregolare sul territorio dello Stato non è ostativa al riconoscimento della misura alternativa.

I motivi esposti, a sostegno del riconoscimento dell’affidamento in prova, sono diversi.

In primis, giova rilevare che all’interno dell’ordinamento penitenziario non è presente alcuna disposizione che ancora il riconoscimento della misura alla liceità della presenza del reo sul territorio italiano, anzi l’ eventuale esclusione dell’ affidamento in prova si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Cost..

Inoltre, non può sottacersi che la finalità rieducativa della pena ex art. 27 Cost. collegata all’istituto in esame preclude ogni forma di trattamento diseguale tra detenuti che versano in situazioni di svantaggio economico e/o sociale.

Falsa testimonianza e stato di necessità

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica Dialoghi Penali affronta il rapporto tra il reato di falsa testimonianza ex art. 372 c.p. e la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p.

Una donna è stata tratta a giudizio per il reato di falsa testimonianza per aver dichiarato il falso nell’ambito di un giudizio penale a carico dell’ex convivente, chiamato a rispondere del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.

In udienza, chiamata a deporre come testimone, raccontava fatti differenti da quelli narrati all’interno della denuncia/querela versata in atti.

Le false dichiarazioni, come esposto, inducevano la procura ad esercitare l’azione penale nei confronti della persona offesa per il reato di falsa testimonianza ex art. 372 c.p.

In sede di giudizio abbreviato è stata condannata alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, pronuncia confermata dalla Corte di Appello.

L’imputata adiva la Suprema Corte di Cassazione, ritenendo la sentenza di condanna censurabile nella parte in cui non aveva riconosciuto la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p., dal momento che la falsa deposizione era dipesa dal timore di subire ritorsioni da parte dell’ex coniuge, soprattutto per l’affidamento della figlia, tenuto conto anche della presenza dell’imputato in aula al momento della sua escussione.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 30592/2024 ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza.

Scopriamo insieme le argomentazioni che hanno portato alla decisione.

Occorre preliminarmente rilevare che la scriminante ex art. 54 c.p. ricorre a condizione che sussistano: 1) la necessità di salvare se stessi o altri da un pericolo attuale e non altrimenti evitabile; 2) un rapporto di proporzione tra il fatto e il pericolo medesimo.

La nozione di attualità del pericolo si identifica nel rapporto di assoluta immediatezza tra la situazione di pericolo e l’azione necessitata.

Il co. 4 dell’art. 59 c.p. prevede che la scriminante ricorre nella forma putativa allorquando le condizioni di attualità o inevitabilità del pericolo siano erroneamente supposte dall’agente, in base a fatti concreti relativi alla specifica situazione.

Ferme tali premesse, la Suprema Corte ha ritenuto integrati gli elementi dello stato di necessità putativo in forza delle circostanze che seguono: 1) la persona offesa non era stata escussa in forma protetta; 2) il breve lasso di tempo intercorso tra la data di commissione del reato di maltrattamenti e quella in cui veniva escussa; 3) le minacce subite dalla ricorrente.

Ebbene, i fatti indicati sono sati valorizzati dalla Suprema Corte per ritenere che la persona offesa si sia convinta di trovarsi in una situazione di pericolo, già vissuta durante la convivenza.

Apparentemente, potrebbe trovare applicazione anche la causa di non punibilità ex art. 384 c.p., ipotesi speciale di stato di necessità che, tuttavia, ricorre soltanto nell’ipotesi in cui l’agente abbia agito per salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.

Ebbene, nel caso in esame, la protagonista, dichiarando il falso, voleva scongiurare possibili ritorsioni da parte dell’ex coniuge in ordine alla gestione della figlia e, pertanto, non risultava sussistente un nocumento nella liberà o nell’onore.

La contraffazione dei km sull’autovettura venduta configura il reato di truffa?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 25283/2024 vede protagonista un uomo accusato di aver alienato un’autovettura avente un numero di km di gran lunga superiore rispetto a quello esposto.

Al venditore veniva contestato dal P.M. il reato di truffa ex art. 640 c.p. per aver alterato il chilometraggio dell’automobile in modo tale da indurre l’acquirente all’acquisto.

In primo grado veniva emessa sentenza di condanna a carico dell’imputato, confermata in appello.

Il reo non condividendo le motivazioni della pronuncia proponeva ricorso per Cassazione.

Rappresentava che il prezzo versato dall’acquirente, anche nell’ipotesi in cui non fosse stata alterata l’indicazione dei km percorsi, era di gran lunga inferiore rispetto a quello indicato dalle riviste di settore e, pertanto, risultava del tutto mancante la prova del profitto conseguito.

La Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal difensore dell’imputato, evidenziando che se l’acquirente avesse conosciuto il chilometraggio effettivo dell’autovettura non l’avrebbe acquistata, non rilevando che il prezzo convenuto era in linea con quelli praticati sul mercato.

Il reato di truffa, secondo costante giurisprudenza, ricorre in tutti i casi in cui l’agente ponga in essere artifizi o raggiri, aventi ad oggetto anche aspetti collaterali al contratto che, tuttavia, risultino rilevanti ai fini della conclusione dell’accordo e senza i quali quest’ultimo non sarebbe stato raggiunto.

Nel caso in esame, l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato che l’acquirente non avrebbe sottoscritto il contratto di compravendita se fosse stato a conoscenza dei km effettivi.

Blocco del conto corrente prima del sequestro preventivo: l’indagato può presentare l’istanza di riesame?

La vicenda giudiziaria origina dalla contestazione all’indagato dei reati previsti dagli artt. 2, 8 e 10 del D. Lgs. n. 74/2000, in forza dei quali veniva richiesto il sequestro preventivo delle somme presenti sul conto corrente.

Il sequestro preventivo veniva anticipato dalla richiesta formulata alla banca circa l’esistenza di rapporti di credito riconducibili all’indagato.

L’istituto, ricevuto il sollecito, autonomamente bloccava l’operatività del conto corrente con evidente pregiudizio per l’indagato che, immediatamente, proponeva istanza di riesame, dichiarata inammissibile dal T.dL.

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 31958/2024, ha accolto il ricorso dell’indagato, evidenziando che il “blocco” operato dall’Istituto Bancario, prima del sequestro preventivo, produce gli stessi effetti pregiudizievoli della misura reale, in quanto determina un 𝘃𝗶𝗻𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗱𝗶 𝗶𝗻𝗱𝗶𝘀𝗽𝗼𝗻𝗶𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁à da cui origina l’interesse ad impugnare.

Il Supremo Consesso aderendo ai precedenti arresti ha confermato, ancora una volta, che l’indagato che si veda privato della facoltà di poter disporre delle somme presenti sul conto corrente sulla base di un provvedimento dell’istituto di credito deve essere tutelato.

L’indagato ha, pertanto, la facoltà di poter presentare l’istanza di riesame prima che venga data esecuzione al successivo sequestro preventivo in quanto, di fatto, vi è già un vincolo di indisponibilità.

Nei confronti di un sequestro preventivo i tempi per proporre l’istanza di riesame sono ridotti e, pertanto, sarà necessario contattare immediatamente un Avvocato Penalista.

Risponde del reato di getto pericoloso di cose il sindaco che non interviene nel caso di malfunzionamento di un depuratore Comunale?

Il protagonista della vicenda giudiziaria vagliata dalla Suprema Corte di Cassazione è un Sindico chiamato a rispondere della contravvenzione ex art. 674 c.p. (𝗴𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗼𝘀𝗲), in quanto un considerevole quantitativo di reflui provenienti dall’impianto di depurazione comunale finivano in mare, imbrattando le acque marine.

La sentenza di condanna, confermata in appello, veniva impugnata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione che dichiarava inammissibile il ricorso del sindaco, rilevando che, “in base alla disciplina sugli enti locali, i dirigenti hanno un dovere di controllo limitato al corretto esercizio della funzione di programmazione generale e, quanto al sindaco, dei compiti di ufficiale del governo, restando esclusa la responsabilità del sindaco per situazioni derivanti da problemi di carattere tecnico-operativo”.

L’art. 107 TUEL prevede la delega ai dirigenti amministrativi dell’ente di autonomi poteri organizzativi e dunque permane comunque in capo al sindaco, quale figura politicamente ed amministrativamente apicale del comune, il dovere di controllo sul corretto esercizio delle attività autorizzate.

Egli ha, inoltre, il 𝗱𝗼𝘃𝗲𝗿𝗲 𝗱𝗶 𝗮𝘁𝘁𝗶𝘃𝗮𝗿𝘀𝗶 𝗾𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗴𝗹𝗶 𝘀𝗶𝗮𝗻𝗼 𝗻𝗼𝘁𝗲 𝘀𝗶𝘁𝘂𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗶, 𝗻𝗼𝗻 𝗱𝗲𝗿𝗶𝘃𝗮𝗻𝘁𝗶 𝗱𝗮 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶𝗻𝗴𝗲𝗻𝘁𝗶 𝗲𝗱 𝗼𝗰𝗰𝗮𝘀𝗶𝗼𝗻𝗮𝗹𝗶 𝗲𝗺𝗲𝗿𝗴𝗲𝗻𝘇𝗲 𝘁𝗲𝗰𝗻𝗶𝗰𝗼-𝗼𝗽𝗲𝗿𝗮𝘁𝗶𝘃𝗲, 𝗰𝗵𝗲 𝗽𝗼𝗻𝗴𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝗹𝗮 𝘀𝗮𝗹𝘂𝘁𝗲 𝗱𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲 𝗼 𝗹’𝗶𝗻𝘁𝗲𝗴𝗿𝗶𝘁à 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗺𝗯𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲.

La Corte ha evidenziato che, nonostante il primo cittadino fosse a conoscenza delle problematiche discendenti dal cattivo funzionamento dell’impianto di depurazione nonché delle possibile conseguenze sull’ambiente, ha omesso ogni intervento diretto a porre rimedio alla situazione di pericolo, originata dai ripetuti sversamenti di reflui in mare.

Il reato di getto pericoloso di cose è un reato contravvenzionale spesso contestato anche a società che, a seguito di complesse lavorazioni, emettono fumi molesti o emissioni odorigene nocive per la salute umana.

Nel caso di fumi o emissioni odorigine è indubbio che l’accertamento tecnico necessario per la contestazione del reato sia particolarmente complesso anche per la durata delle predette e per la difficile individuazione delle fonti allorquando più attività industriali si trovino nella stessa area.

Nell’ipotesi di una contestazione per getto pericoloso di cose è opportuno rivolgersi immediatamente ad un Avvocato Penalista.

 

Accertamenti sanitari nel caso di guida in stato di alterazione: possono essere rifiutati?

In occasione di un sinistro stradale il conducente di uno dei veicoli veniva inviato a sottoporsi ad accertamenti per verificare il tasso alcolemico e l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Il conducente si sottoponeva all’esame ematico che dava esito negativo, mentre si rifiutava di fornire un campione di urine e, per tale ragione, veniva tratto a giudizio e condannato per il reato ex art. 187 commi 3 e 8 del D. Lgs. n. 285/1992.

La pronuncia di condanna, confermata in appello, veniva impugnata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione che accoglieva il ricorso, evidenziando che “𝗹’𝟭𝟴𝟳, 𝗰𝗼. 𝟴, 𝗖𝗼𝗱. 𝗦𝘁𝗿𝗮𝗱𝗮 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗮𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗮 𝗶𝗹 𝗿𝗶𝗳𝗶𝘂𝘁𝗼 𝗼𝗽𝗽𝗼𝘀𝘁𝗼 𝗮𝗱 𝘂𝗻 𝗽𝗮𝗿𝘁𝗶𝗰𝗼𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗽𝗿𝗲𝗹𝗶𝗲𝘃𝗼 𝗱𝗶 𝗰𝗮𝗺𝗽𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗯𝗶𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗶 𝗾𝘂𝗮𝗻𝘁𝗼, 𝗽𝗶𝘂𝘁𝘁𝗼𝘀𝘁𝗼, 𝗹𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼𝘁𝘁𝗮 𝗼𝘀𝘁𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗼𝘃𝘃𝗲𝗿𝗼 𝗱𝗲𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝗮𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗲𝗹𝘂𝘀𝗶𝘃𝗮 𝗱𝗲𝗹𝗹’𝗮𝗰𝗰𝗲𝗿𝘁𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗱𝗶 𝘂𝗻𝗮 𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼𝘁𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗴𝘂𝗶𝗱𝗮 𝗶𝗻𝗱𝗶𝘇𝗶𝗮𝘁𝗮 𝗱𝗶 𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝗴𝗿𝗮𝘃𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗿𝗿𝗲𝗴𝗼𝗹𝗮𝗿𝗲 𝗲 𝘁𝗶𝗽𝗶𝗰𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗽𝗲𝗿𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝗮”.

Ebbene, poiché anche attraverso l’esame ematico ben poteva essere accertata l’assunzione di sostanza stupefacente, non risulta integrato il “rifiuto” presupposto del reato in contestazione.

La Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della pronuncia con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello.

Nel caso di elevazione di una contestazione analoga è sempre necessario rivolgere ad un avvocato penalista.