Il dipendente pubblico che si allontana dal posto di lavoro per la pausa caffè senza timbrare risponde del reato di truffa aggravata?

La vicenda giudiziaria vede protagonista un dipendente pubblico accusato del reato di truffa aggravata per essersi allontanato, più volte, dal posto di lavoro senza aver timbrato il cartellino.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33015/2024, ha rigettato il ricorso proposto dal difensore dell’imputato avverso la statuizione della Corte di Appello di Trieste che aveva confermato la pronuncia di prescrizione per il reato ex art. 640 co. 2 n.1 c.p..

All’imputato veniva contestato di essersi allontanato, più volte, dal luogo di lavoro per la pausa caffè, senza aver mai timbrato il badge, con conseguente inganno per la P.A. , in quanto in tal modo veniva conteggiato un numero di ore lavorative superiore rispetto a quelle effettivamente prestato, con conseguente profitto per l’autore della condotta e correlato danno per l’Ente.

Con il ricorso per Cassazione venivano sollevati differenti motivi di censura: 1) la pausa caffè senza timbratura doveva ritenersi riconosciuta in quanto il contratto collettivo nazionale consente “brevi refezioni”; 2) le brevi uscite non hanno compromesso lo svolgimento delle funzioni dell’ufficio e il danno quantificato in € 900,00 non integrerebbe l’elemento richiesto dalla fattispecie incriminatrice.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che l’omessa timbratura del dipendente costituisce un artifizio idoneo ad ingannare e ha ribadito che il nocumento può essere integrato anche da poche centinaia di euro.

La ritrattazione della persona offesa è idonea da sola ad escludere l’attualità delle esigenze cautelari?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema della rilevanza della ritrattazione della persona offesa nell’ambito di un procedimento a carico di un uomo (ex compagno della vittima), accusato del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. e di lesioni aggravate ex artt. 582-585 c.p., che aveva indotto il Tribunale del Riesame a disporre la revoca delle misure cautelari applicate in via congiunta.

Il caso origina dall’impugnazione proposta dal PM nei confronti dell’ordinanza emessa del Tribunale che aveva disposto la revoca delle misure cautelari dell’obbligo di presentazione alla p.g., dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento o di comunicazione con la persona offesa.

La decisione aveva escluso l’attualità delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., riconosciute dal provvedimento genetico, in quanto la persona offesa aveva riferito che il partner era cambiato ed era anche ripresa la convivenza.

Non condividendo le motivazioni del riesame, il PM proponeva ricorso per Cassazione evidenziando la manifesta contraddittorietà del provvedimento impugnato nella parte in cui aveva riconosciuto l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa e, poi, in un secondo momento, la credibilità della ritrattazione, omettendo una ricostruzione completa del clima familiare, caratterizzato da un stato di soggezione acclarato, in cui era stata adottata la seconda determinazione di segno opposto.

La Suprema Corte di Cassazione – Sez. VI – con la pronuncia n. 44544/2024 ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza con rinvio al Tribunale competente ex art. 309 co. 7 c.p.p.

Scopriamo insieme le motivazioni…

La pronuncia ha rilevato la manifesta contraddittorietà dell’ordinanza del riesame che ha omesso una ricostruzione completa dei fatti dai quali emergeva un rapporto di soggezione consolidato nel tempo, connotato da violenze e minacce, peraltro confermato anche dal racconto dei familiari della persona offesa.

La vittima, al momento della ritrattazione, si trovava in uno stato di soggezione determinato dalla reiterazione di condotte di abuso perpetrate all’interno del contesto familiare.

La successiva ritrattazione appariva, pertanto, non spontanea ma riconducibile all’insistenza dell’indagato che, peraltro, aveva già anticipato ai carabinieri la ritrattazione della vittima.

Inoltre, la Corte ha censurato l’assenza di una valutazione autonoma circa le esigenze di tutela dell’incolumità della vittima.

Estinzione del reato per condotte riparatorie, persona offesa e pubblico ministero possono opporsi?

L’istituto disciplinato dall’art. 162 ter c.p. prevede che, per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, il giudice può dichiarare estinto il reato se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato ha riparato integralmente il danno.

I presupposti per ottenere l’estinzione del reato sono due: 1) la riparazione integrale del danno; 2) l’osservanza del limite temporale.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 41899/2024, Sez. V, ha ribadito che i requisiti per l’applicazione dell’istituto sono due, non rilevando l’eventuale opposizione formulata dal P.M. o dal difensore della parte civile.

La decisione ha evidenziato che la disposizione in esame, a differenza di quanto previsto dall’art. 469 c.p.p., non prevede la facoltà in capo al PM e all’imputato di opporsi.


Pertanto, il giudice potrà dichiarare l’estinzione del reato procedibile a querela nell’ipotesi in cui il risarcimento avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e sia integrale, senza che PM e difensore della parte civile possano opporsi.

Giova, infine, rilevare che la disposizione in esame non può essere applicata al reato di stalking ex art. 612 bis c.p., espressamente escluso dall’ultimo comma dell’art. 162 ter c.p.

L’impiegato postale che sottrae il corrispettivo del servizio in contrassegno risponde di peculato?

Il protagonista della vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” è un impiegato postale, con mansioni di responsabile del centro primario di distribuzione, accusato del reato di peculato ex art. 314 c.p. per aver sottratto € 570,00 di incassi per spedizioni con contrassegno.

Il reato di peculato sanziona la condotta di appropriazione di denaro o di una cosa mobile altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio.

Il presupposto è il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile.

La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di condanna di primo grado, rigettando la tesi difensiva che sosteneva l’insussistenza dei presupposti della fattispecie incriminatrice disciplinata dall’art. 314 c.p.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello evidenziando che la condotta poteva integrare gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., in quanto il servizio svolto non aveva natura pubblica e, inoltre, risultava assente in capo all’imputato la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Il reato ex art. 646 c.p. può essere definito una forma di appropriazione non qualificata in quanto l’autore della condotta non deve rivestire alcuna qualifica.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 41788/2024 – Sez. VI, ha riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita, annullando senza rinvio la decisione perché il reato risultava estinto per prescrizione.

Vediamo insieme le motivazione della pronuncia.

In primis, occorre rilevare che il servizio in contrassegno (pagamento al corriere alla consegna del pacco) non è un servizio svolto da Poste in via esclusiva, bensì operato in regime di concorrenza sul mercato.

Pertanto, poiché si tratta di un’attività svolta liberamente sul mercato, da più soggetti, in regime di concorrenza, non è inquadrabile tra i servizi pubblici.

Inoltre, deve rilevarsi che l’imputato preposto all’interno della struttura postale all’annotazione delle somme ricevute, non svolge un’attività riconducibile alla qualifica di pubblico ufficiale in quanto non ha poteri autoritativi né di natura certificativa.

Inoltre, non è riconducibile a quella di incaricato di pubblico servizio dal momento che si tratta di un’attività materiale in esecuzione di ordini di servizio o di prescrizioni impartite da superiori gerarchici.

Regime speciale ex art. 41 bis, può essere imposto ai familiari del detenuto di coprire i tatuaggi durante i colloqui?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 40592/2024 tra origine dall’impugnazione dell’ordinanza di rigetto, emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Sassari, che non aveva accolto l’istanza di un detenuto sottoposto al regime speciale ex art. 41 bis.

Il detenuto aveva richiesto la revoca o la modifica delle disposizioni dipartimentali che avevano imposto anche ai suoi familiari, durante lo svolgimento dei colloqui periodici, di coprire i tatuaggi, in quanto attraverso gli stessi potevano essere veicolati messaggi criptici.

Il Tribunale di Sorveglianza aveva ritenuto legittima la prescrizione imposta in quanto, durante i colloqui, ben potevano essere veicolati messaggi verso l’esterno attraverso i tatuaggi, tenuto conto dell’elevata pericolosità dei detenuti sottoposti al regime speciale.

Tatuaggi in regime 41 bis

La Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso evidenziando che le prescrizioni dipartimentali, innegabilmente limitative della libertà individuale, siano giustificate dalla necessità di impedire collegamenti tra detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali e sodali ancora in libertà.

Ne consegue che il detenuto sottoposto al regime ex art. 41 bis dell’ Ord. Pen., proprio per il regime speciale richiamato, può subire ulteriore e specifiche limitazioni purché dirette a contrastare specifici e seri pericoli.

Il differente regime restrittivo rispetto ai detenuti ordinari mira ad impedire che i detenuti “speciali” possano continuare ad impartite direttive agli affiliati in stato di libertà, mantenendo inalterato il sistema criminale.

Sospensione condizionale della pena e obbligo del reo di partecipazione a corso di recupero

L’imputato, protagonista della vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione, è stato condannato, in sede di giudizio abbreviato, alla pena di anni due di reclusione per il reato ex art. 572 co 2. c.p. con il riconoscimento della sospensione condizionale della pena che, tuttavia, non è stato subordinato all’obbligo ex art. 165 co. 5 c.p.

La decisione è stata impugnata dal Procuratore Generale che evidenziava la violazione dell’art. 165 co. 5 c.p., che subordina il riconoscimento del beneficio de quo alla partecipazione ad un percorso di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati.

La Legge n. 69/2019 ha introdotto per specifiche ipotesi di reato, tra le quali rientra il reato per cui vi è stata condanna, un obbligo a carico del condannato a cui è stato concesso il beneficio.

Quest’ultimo dovrà partecipare ad un percorso di recupero che tenga conto del tipo di reato, della personalità del condannato, del movente e della relazione della vittima con l’autore del reato.

L’obbligo codificato all’art. 165 c.p. ha plurime finalità: a) prevenire il rischio di recidiva; b) tutelare le vittime dirette o potenziali; c) vincolare il giudice in deroga alla discrezionalità prevista dall’ art. 165 co. 1 c.p.; d) consentire all’imputato di operare una scelta libera.

La Corte ha illustrato, annullando la decisione, gli aspetti che il giudice di merito dovrà disciplinare nella pronuncia che concede il beneficio ex art. 165 c.p.

Scopriamoli insieme..

Il giudice della cognizione dovrà verificare che:

1) il reo abbia espresso un consenso libero e informato;

2) il reo abbia indicato un ente/associazione presso la quale verrà svolto il corso;

Nel provvedimento dovrà essere  precisata la durata del percorso, il termine di inizio da far decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza.

Infine, occorrerà indicare le modalità di svolgimento e, al termine, espletata la verifica circa l’esito favorevole del percorso.

 

Il narcotest effettuato sulla sostanza stupefacente è sufficiente per una pronuncia di condanna?

Il protagonista della vicenda giudiziaria è un uomo accusato del reato ex art. 73 co. 5 del D.P.R. n. 309/90.

Veniva tratto in arresto in quanto, a seguito di una perquisizione, veniva trovato in possesso di un quantitativo imprecisato di sostanza stupefacente, sulla quale veniva eseguito in narcotest.

Il narcotest è un esame basato su semplici reazioni chimiche che consente di appurare la natura stupefacente di una sostanza, sebbene non fornisca informazioni circa il principio attivo.

Se il principio attivo può essere definito come l’ingrediente che rende un farmaco efficace, la sua misurazione assume un ruolo centrale per appurare il grado di lesione del bene giuridico tutelato, in quanto un principio attivo prossimo allo zero non potrà arrecare alcuna offesa al bene protetto dalla fattispecie incriminatrice.

La Suprema Corte di Cassazione ha più volte affermato che il narcotest consente di accertare la natura stupefacente della sostanza rinvenuta e unitamente ad altri elementi di prova può confermare l’ipotesi accusatoria circa l’esistenza di un’attività di spaccio.

Il Giudice, difatti, può impiegare nella sua valutazione tutte le circostanze riferite dagli accertatori relative alle modalità di conservazione dello stupefacente, alla disponibilità di denaro, al rinvenimento di sostanze da taglio e, infine, alle condizioni economiche dell’indagato.

Scopriamo insieme se è stato condannato…

L’uomo, a seguito del risultato positivo dell’esame eseguito, che appurava la natura stupefacente della sostanza, veniva condannato, con sentenza confermata in appello.

Proponeva ricorso per Cassazione lamentando l’omesso espletamento di una perizia tossicologica sulla sostanza che avrebbe consentito di rilevare il principio attivo.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso  evidenziando che tale accertamento non era necessario, in quanto il giudice di merito correttamente ha desunto la detenzione ai fini di spaccio dal risultato del narcotest e dalle circostante emerse in dibattimento.

Invero, le deposizioni hanno consentito di rilevare che le modalità di detenzione della sostanza e il quantitativo erano tale da escludere un possesso per fini personali.

Nell’ipotesi di contestazione del reato di spaccio è opportuno rivolgersi ad un avvocato penalista

Stranieri extracomunitari e concessione dell’affidamento in prova al servizio sociale

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema del riconoscimento dell’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 della L. n. 354/1975 allo straniero extra-comunitario entrato illegalmente nel territorio dello Stato e privo del permesso di soggiorno.

La competenza sulle misure alternative alla detenzione è affidata al Tribunale di Sorveglianza e presuppone che il colpevole sia stato condannato con sentenza definitiva ad una pena per la quale non sia stato concesso il beneficio ex art. 163 c.p.

Tornando al caso vagliato dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 40131/2024, occorre rilevare, in via preliminare, che l’imputato era stato condannato, con sentenza irrevocabile, alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione in ordine ai reati di produzione, traffico e detenzione illecita di sostanza stupefacente ex art. 73 del D.P.R. n. 309/1990.

Il difensore, tempestivamente, presentava al Tribunale di Sorveglianza di Brescia istanza di affidamento in prova al servizio sociale che, tuttavia, veniva respinta.

Contro la decisione veniva proposto ricorso per Cassazione in quanto la decisione risultava viziata, non avendo tenuto conto che l’istanza conteneva sia l‘indicazione di un domicilio che la dichiarazione di disponibilità di un datore di lavoro, presupposti necessari e indispensabili a fini del riconoscimento della misura alternativa.

Invero, il Tribunale di Sorveglianza emetteva una pronuncia di rigetto in quanto l’istante extracomunitario era entrato irregolarmente nel territorio dello Stato e, al contempo, era privo del permesso di soggiorno.

La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso annullando la decisione del Tribunale di Sorveglianza con rinvio per un’altra valutazione dell’istanza.

Vediamo insieme le motivazioni della pronuncia.

L’affidamento in prova al servizio sociale ex art. 47 dell’Ord. Pen. è la principale misura alternativa alla detenzione destinata ad attuare una finalità rieducativa della pena ex art. 27 Cost..

L’esito positivo del periodo di prova estingue la pena detentiva ed ogni altro effetto penale, ad eccezione delle pene accessorie perpetue.

Il Tribunale di Sorveglianza, qualora l’interessato si trovi in disagiate condizioni economiche e patrimoniali, può dichiarare estinta anche la pena pecuniaria che non sia stata già riscossa ovvero la pena sostitutiva nella quale sia stata convertita la pena pecuniaria non eseguita.

Può essere richiesta per condanne fino a 4 anni di reclusione e presuppone:

1) la presenza di un valido domicilio;

2) la dichiarazione di disponibilità di un datore o di un’associazione/ente per lo svolgimento di un’attività socialmente utile di tipo volontaristico;

3) un giudizio positivo sulla personalità del reo successiva alla commissione del reato nella prospettiva di un reinserimento sociale.

La Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata a favore del ricorrente aderendo ad un indirizzo, ormai consolidato, in forza del quale la presenza irregolare sul territorio dello Stato non è ostativa al riconoscimento della misura alternativa.

I motivi esposti, a sostegno del riconoscimento dell’affidamento in prova, sono diversi.

In primis, giova rilevare che all’interno dell’ordinamento penitenziario non è presente alcuna disposizione che ancora il riconoscimento della misura alla liceità della presenza del reo sul territorio italiano, anzi l’ eventuale esclusione dell’ affidamento in prova si porrebbe in contrasto con l’art. 3 della Cost..

Inoltre, non può sottacersi che la finalità rieducativa della pena ex art. 27 Cost. collegata all’istituto in esame preclude ogni forma di trattamento diseguale tra detenuti che versano in situazioni di svantaggio economico e/o sociale.

Falsa testimonianza e stato di necessità

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica Dialoghi Penali affronta il rapporto tra il reato di falsa testimonianza ex art. 372 c.p. e la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p.

Una donna è stata tratta a giudizio per il reato di falsa testimonianza per aver dichiarato il falso nell’ambito di un giudizio penale a carico dell’ex convivente, chiamato a rispondere del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p.

In udienza, chiamata a deporre come testimone, raccontava fatti differenti da quelli narrati all’interno della denuncia/querela versata in atti.

Le false dichiarazioni, come esposto, inducevano la procura ad esercitare l’azione penale nei confronti della persona offesa per il reato di falsa testimonianza ex art. 372 c.p.

In sede di giudizio abbreviato è stata condannata alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, pronuncia confermata dalla Corte di Appello.

L’imputata adiva la Suprema Corte di Cassazione, ritenendo la sentenza di condanna censurabile nella parte in cui non aveva riconosciuto la scriminante dello stato di necessità ex art. 54 c.p., dal momento che la falsa deposizione era dipesa dal timore di subire ritorsioni da parte dell’ex coniuge, soprattutto per l’affidamento della figlia, tenuto conto anche della presenza dell’imputato in aula al momento della sua escussione.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 30592/2024 ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza.

Scopriamo insieme le argomentazioni che hanno portato alla decisione.

Occorre preliminarmente rilevare che la scriminante ex art. 54 c.p. ricorre a condizione che sussistano: 1) la necessità di salvare se stessi o altri da un pericolo attuale e non altrimenti evitabile; 2) un rapporto di proporzione tra il fatto e il pericolo medesimo.

La nozione di attualità del pericolo si identifica nel rapporto di assoluta immediatezza tra la situazione di pericolo e l’azione necessitata.

Il co. 4 dell’art. 59 c.p. prevede che la scriminante ricorre nella forma putativa allorquando le condizioni di attualità o inevitabilità del pericolo siano erroneamente supposte dall’agente, in base a fatti concreti relativi alla specifica situazione.

Ferme tali premesse, la Suprema Corte ha ritenuto integrati gli elementi dello stato di necessità putativo in forza delle circostanze che seguono: 1) la persona offesa non era stata escussa in forma protetta; 2) il breve lasso di tempo intercorso tra la data di commissione del reato di maltrattamenti e quella in cui veniva escussa; 3) le minacce subite dalla ricorrente.

Ebbene, i fatti indicati sono sati valorizzati dalla Suprema Corte per ritenere che la persona offesa si sia convinta di trovarsi in una situazione di pericolo, già vissuta durante la convivenza.

Apparentemente, potrebbe trovare applicazione anche la causa di non punibilità ex art. 384 c.p., ipotesi speciale di stato di necessità che, tuttavia, ricorre soltanto nell’ipotesi in cui l’agente abbia agito per salvare se stesso o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore.

Ebbene, nel caso in esame, la protagonista, dichiarando il falso, voleva scongiurare possibili ritorsioni da parte dell’ex coniuge in ordine alla gestione della figlia e, pertanto, non risultava sussistente un nocumento nella liberà o nell’onore.

La contraffazione dei km sull’autovettura venduta configura il reato di truffa?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 25283/2024 vede protagonista un uomo accusato di aver alienato un’autovettura avente un numero di km di gran lunga superiore rispetto a quello esposto.

Al venditore veniva contestato dal P.M. il reato di truffa ex art. 640 c.p. per aver alterato il chilometraggio dell’automobile in modo tale da indurre l’acquirente all’acquisto.

In primo grado veniva emessa sentenza di condanna a carico dell’imputato, confermata in appello.

Il reo non condividendo le motivazioni della pronuncia proponeva ricorso per Cassazione.

Rappresentava che il prezzo versato dall’acquirente, anche nell’ipotesi in cui non fosse stata alterata l’indicazione dei km percorsi, era di gran lunga inferiore rispetto a quello indicato dalle riviste di settore e, pertanto, risultava del tutto mancante la prova del profitto conseguito.

La Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dal difensore dell’imputato, evidenziando che se l’acquirente avesse conosciuto il chilometraggio effettivo dell’autovettura non l’avrebbe acquistata, non rilevando che il prezzo convenuto era in linea con quelli praticati sul mercato.

Il reato di truffa, secondo costante giurisprudenza, ricorre in tutti i casi in cui l’agente ponga in essere artifizi o raggiri, aventi ad oggetto anche aspetti collaterali al contratto che, tuttavia, risultino rilevanti ai fini della conclusione dell’accordo e senza i quali quest’ultimo non sarebbe stato raggiunto.

Nel caso in esame, l’istruttoria dibattimentale ha dimostrato che l’acquirente non avrebbe sottoscritto il contratto di compravendita se fosse stato a conoscenza dei km effettivi.