Oggi parliamo di diffamazione su internet mediante la pubblicazione di post offensivi sul proprio profilo facebook. La domanda a cui ha risposto la Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 37070/2022 è molto interessante, dal momento che indica il modo attraverso il quale è possibile dimostrare la propria innocenza nel caso in cui alcuni post denigratori siano stati pubblicati, a nostra insaputa, sul profilo personale.
Nel caso vagliato dalla Corte, l’imputato veniva accusato e poi condannato per la pubblicazione di alcuni post offensivi sul proprio profilo facebook, che denigravano l’attività di un parrucchiere esercitata in un locale adiacente a quello del reo.
All’imputato veniva contestato il reato di diffamazione nella forma aggravata previsto dall’ art. 595 co. 3 del Codice Penale.
La disposizione sanziona l’offesa dell’altrui reputazione, mediante la comunicazione con più persone. Trattandosi di reato di evento, il momento consumativo coincide con la percezione dell’offesa. Il co. 3 prevede un’ aggravante nel caso in cui l’offesa è arrecata mediante la stampa o con qualsiasi mezzo di pubblicità ovvero in atto pubblico.
Il titolare del profilo non condividendo le motivazioni della pronuncia di condanna per il reato suindicato decideva di adire la Suprema Corte di Cassazione.
Con il ricorso è stata censurata la sentenza in quanto non avrebbe fornito la prova nè della pubblicazione sul profilo di post denigratori da parte del titolare del predetto che, peraltro, mediante il proprio difensore aveva contestato, prima dell’instaurazione del giudizio penale, la paternità dei post, nè che i messaggi fossero destinati all’esercente l’attività di parrucchiere, che operava nel locale adiacente.
La Corte ha evidenziato che l’omessa denuncia del c.d. “furto di identità” da parte dell’intestatario della bacheca sulla quale vi è stata la pubblicazione di post “incriminati”, può costituire valido elemento indiziario (Sez. 5, n. 4239 del 21/10/2021, dep. 2022; Sez. 5, n. Sez. 5, n. 45339 del 13/07/2018, Petrangelo, n. m.; Sez. 5, n. 8328 del 13/07/2015, dep. 2016, Martinez, n. m.) per ritenere che il titolare abbia pubblicato i post.
Nel caso in esame, il ricorrente non aveva presentato alcuna denuncia per segnalare l’uso illecito del proprio profilo.
Con riferimento alla seconda doglianza ovvero all’ individuazione del destinatario dei messaggi denigratori, la Corte ha osservato che la sentenza gravata aveva già rappresentato che tutti i testimoni escussi erano concordi nel ritenere che i messaggi pubblicati sul profilo erano rivolti al parrucchiere che esercitava la propria attività in un immobile adiacente a quello dell’imputato.