Guida in stato di ebbrezza: chi deve dimostrare il regolare funzionamento dell’etilometro?

Il protagonista della vicenda è un automobilista che, risultavo positivo a seguito di un controllo del tasso alcolemico effettuato mediante etilometro, veniva tratto a giudizio per il reato di guida in stato di ebbrezza previsto dall’art. 186 co. 1 e 2 del C.D.S.

Prima di entrare nel cuore della vicenda giudiziaria su cui si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 26052/2022, occorre soffermarci sulla nozione di alcoltest e sul reato previsto dall’art. 186.

Per alcoltest si intende la misurazione del tasso di alcol presente nel sangue di una persona alla guida di un veicolo, al fine di verificare l’eventuale superamento dei limiti fissati dalla legge (art. 186 Codice della Strada).

La disposizione rubricata “Guida sotto l’influenza dell’alcool”, stabilisce il divieto di guidare in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, prevedendo, al co. 2, a seguito delle modifiche introdotte dall’art. 33 della L. n. 120/2012, alcune sanzioni amministrative o ammende in capo a colui il quale guidi in tale stato, sempre che il fatto non costituisca più grave reato.

Il legislatore ha previsto tre ipotesi di responsabilità che di seguito si riportano:

a) la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da € 532 a € 2.127, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,5 ma non superiore a 0,8 grammi per litro (g/l). All’accertamento della violazione consegue la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da tre a sei mesi;

b) l’ammenda da € 800 a € 3.200 e l’arresto fino a sei mesi, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro (g/l). All’accertamento del reato consegue in ogni caso la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno;

c) l’ammenda da € 1.500 a € 6.000, l’arresto da sei mesi ad un anno, qualora sia stato accertato un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro.

Il conducente veniva condannato in primo e secondo grado per il reato di guida in stato di ebbrezza ritenendo, tuttavia, di aver subito un’ingiusta condanna adiva la Suprema Corte di Cassazione, sostenendo la illegittimità della pronuncia in quanto tra i due rilevamenti era intercorso un lasso di tempo superiore ai cinque minuti e, inoltre, non vi era prova che l’etilometro fosse stato sottoposto ad omologazione, calibratura e revisione.

La Suprema Corte di Cassazione non ha accolto che censure sollevate dal ricorrente dichiarando inammissibile l’atto di impugnazione.

Nello specifico, ha osservato che la ratio della disposizione di cui all’art. 379 del Regolamento al codice della strada, secondo cui, ai fini dell’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica, in tutte le ipotesi previste dall’ art. 186 il distacco temporale di 5 minuti che deve intercorrere tra la prima e la seconda prova spirometrica deve essere interpretato come intervento minimo volto a monitorare la curva alcolemica (Cass. pen., Sez. IV, 27 aprile 2018, n. 24386).

Ne discende che un lasso di tempo superiore tra la prima e la seconda prova, così come verificatosi nel caso in esame, non esclude la validità dell’accertamento operato.

Con riferimento alla seconda censura, occorre evidenziare che l’ art. 379 Reg. esec. C.d.S., prevede che l’omologazione e la periodica verifica dell’etilometro non significa, dunque, che l’accusa debba immediatamente corredare i risultati della rilevazione etilometrica coi dati relativi all’esecuzione di tali operazioni: tali dati, riferiti ad attività necessariamente prodromiche al momento della misurazione del tasso alcolemico non hanno di per sè rilievo probatorio ai fini dell’accertamento dello stato di ebbrezza dell’imputato.

Perciò è del tutto fisiologico che la verifica processuale del rispetto delle prescrizioni dell’art. 379 Reg. Esec. C.d.S. sia sollecitata dall’imputato, che ha all’uopo “un onere di allegazione volto a contestare la validità dell’accertamento eseguito nei suoi confronti, che non può risolversi nella mera richiesta di essere portato a conoscenza dei dati relativi all’omologazione ed alla revisione periodica dello strumento, ma deve concretizzarsi nell’allegazione di un qualche dato che possa far ritenere che tale omologazione e/o revisione possa essere avvenuta”.

Tuttavia, non sono stati forniti elementi diretti a provare una carenza dei requisiti dell’apparecchio impiegato per effettuare l’operazione contestata e, pertanto, anche tale motivo è stato ritenuto infondato dalla Suprema Corte di Cassazione.

Pubblicato da Fabio Torluccio

Mi chiamo Fabio Torluccio e sono un avvocato penalista Salerno. Iscritto all'albo degli avvocati dal 2014 e mi occupo di difesa penale e consulenza no profit.

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