Oggi scrivo di un argomento caldo, anzi rovente, mi riferisco alla diffamazione a mezzo Social Network e nel caso specifico attraverso Facebook.
Il reato di diffamazione disciplinato dall’art. 595 c.p. è collocato nel titolo del delitti contro la persona, in quanto diretto alla tutela della reputazione ovverosia alla protezione della considerazione che gli altri hanno di noi.
Il reato è aggravato e, quindi, la pena sarà più elevata, laddove venga impiegata per diffamare la stampa o un altro mezzo di pubblicità, dal momento che attraverso queste modalità l’offesa ha una maggiore capacità diffusiva.
Tra i mezzi di pubblicità a cui il legislatore ha inteso riferirsi può essere sicuramente annoverato Facebook.
Il caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 10762/2022 riguarda la pubblicazione sul profilo Facebook della persona offesa di diversi post diffamatori rivolti a quest’ultima, sebbene nei predetti non fosse riportato il nome e il cognome della persona presa di mira.
Gli imputati, salvati dalla prescrizione del reato, hanno cercato di confondere le acque, sostenendo che poiché non era mai stato indicato nei post il nome e il cognome della persona offesa mancava la prova che le ingiurie fosse state rivolte proprio a lei.
Il Supremo Consesso ha ritenuto le censure sollevate dai difensori dei ricorrenti infondate, in quanto non osta all’integrazione del reato di diffamazione l’assenza di indicazione nominativa del soggetto la cui reputazione è lesa, qualora lo stesso sia individuabile, sia pure da parte di un numero limitato di persone, attraverso gli elementi della fattispecie concreta, quali la natura e la portata dell’offesa, le circostanze narrate, oggettive e soggettive, i riferimenti personali e temporali (Cfr., Cass., Sez. 6, n. 2598 del 06/12/2021).
Sono stati difatti individuati differenti elementi idonei a dimostrare che i post offensivi fossero rivolti alla persona offesa, vediamoli insieme: “(il “nanismo” della persona offesa, oggetto di commenti denigratori; il riferimento, sempre in termini sprezzanti, alla zia della Z., indicata come “spazzina“, in ragione della sua attività di addetta alle pulizie presso l’esercizio commerciale dove lavoravano all’epoca dei fatti i due imputati”; l’ulteriore riferimento alla lettera inviata dalla destinataria delle offese, “essendo pacifico che, nel mese di (OMISSIS), l’avv. Z. nella sua veste professionale aveva indirizzato ai due imputati una lettera nella vertenza che li contrapponeva alla sua assistita C.”; infine, il riferimento “alla mancata possibilità di parlare ed alla delusione manifestata dalla destinataria delle offese”, attraverso frasi sempre offensive, riconducibili “all’incontro tenutosi sempre nel mese di (OMISSIS) presso (OMISSIS) con i dirigenti/responsabili di tale esercizio commerciale ed i dipendenti coinvolti nella ricordata querelle, incontro cui l’avv. Z. non aveva avuto la facoltà di partecipare, come avrebbe voluto”), in relazione ai quali i rilievi difensivi appaiono versati in fatto.
Gli elementi indicati hanno consentito di dimostrare che i post denigratori erano rivolti alla persona offesa, tuttavia, i due ricorrenti sono riusciti a sfuggire alla condanna in quanto la Suprema Corte di Cassazione ha rilevato che il reato di diffamazione era prescritto.