Il rapporto tra il reato di ricettazione e quello di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti

Il crescente fenomeno dell’introduzione abusiva di apparecchi telefonici all’interno degli istituti penitenziari ha determinato l’inserimento all’interno del Codice Penale, con l’ art. 9 del D. L. n. 130/2020 (Decreto Sicurezza Bis), dell’art. 391 ter, che sanziona il reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti.

Il co. 3 sanziona la condotta del detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni.

La pena prevista per la condotta suindicata è compresa tra uno e quattro anni di reclusione.

Il co. 3 dell’art. 391 ter c.p. contiene una clausola di riserva, prevedendo che la disposizione si applichi salvo che la condotta integri una fattispecie di reato più grave.

La vicende giudiziaria vede protagonista un detenuto sorpreso con un apparecchio telefonico introdotto abusivamente all’interno della struttura penitenziaria.

A seguito della chiusura delle indagini veniva contestato al detenuto il reato di ricettazione ex art. 648 c.p.

Contro la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando la qualificazione giuridicadel fatto che doveva essere inquadrato nell’ipotesi meno grave ex art. 391 ter c.p.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 4189/2025, ha rigettato il ricorso, ritenendo corretta la qualificazione giuridica operata con la decisione di primo grado e, al contempo, rilevando che l’apparecchio cellulare costituisce una cosa proveniente dal reato ex art. 391 ter c.p.

Ha rilevato, inoltre, che non è stata fornita dalla difesa la prova di un accordo tra il detenuto e il soggetto che ha consegnato l’apparecchio, che avrebbe escluso la configurabilità del reato di ricettazione in luogo di quello previsto dall’art. 391 ter c.p.

La Corte ha ricordato, infine, che la clausola di sussidiarietà inserita nel co 3 della disposizione in esame legittima la qualificazione operata da parte del Giudice di Primo Grado.

Il dipendente pubblico che si allontana dal posto di lavoro per la pausa caffè senza timbrare risponde del reato di truffa aggravata?

La vicenda giudiziaria vede protagonista un dipendente pubblico accusato del reato di truffa aggravata per essersi allontanato, più volte, dal posto di lavoro senza aver timbrato il cartellino.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 33015/2024, ha rigettato il ricorso proposto dal difensore dell’imputato avverso la statuizione della Corte di Appello di Trieste che aveva confermato la pronuncia di prescrizione per il reato ex art. 640 co. 2 n.1 c.p..

All’imputato veniva contestato di essersi allontanato, più volte, dal luogo di lavoro per la pausa caffè, senza aver mai timbrato il badge, con conseguente inganno per la P.A. , in quanto in tal modo veniva conteggiato un numero di ore lavorative superiore rispetto a quelle effettivamente prestato, con conseguente profitto per l’autore della condotta e correlato danno per l’Ente.

Con il ricorso per Cassazione venivano sollevati differenti motivi di censura: 1) la pausa caffè senza timbratura doveva ritenersi riconosciuta in quanto il contratto collettivo nazionale consente “brevi refezioni”; 2) le brevi uscite non hanno compromesso lo svolgimento delle funzioni dell’ufficio e il danno quantificato in € 900,00 non integrerebbe l’elemento richiesto dalla fattispecie incriminatrice.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, ritenendo che l’omessa timbratura del dipendente costituisce un artifizio idoneo ad ingannare e ha ribadito che il nocumento può essere integrato anche da poche centinaia di euro.

La ritrattazione della persona offesa è idonea da sola ad escludere l’attualità delle esigenze cautelari?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema della rilevanza della ritrattazione della persona offesa nell’ambito di un procedimento a carico di un uomo (ex compagno della vittima), accusato del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. e di lesioni aggravate ex artt. 582-585 c.p., che aveva indotto il Tribunale del Riesame a disporre la revoca delle misure cautelari applicate in via congiunta.

Il caso origina dall’impugnazione proposta dal PM nei confronti dell’ordinanza emessa del Tribunale che aveva disposto la revoca delle misure cautelari dell’obbligo di presentazione alla p.g., dell’obbligo di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento o di comunicazione con la persona offesa.

La decisione aveva escluso l’attualità delle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., riconosciute dal provvedimento genetico, in quanto la persona offesa aveva riferito che il partner era cambiato ed era anche ripresa la convivenza.

Non condividendo le motivazioni del riesame, il PM proponeva ricorso per Cassazione evidenziando la manifesta contraddittorietà del provvedimento impugnato nella parte in cui aveva riconosciuto l’attendibilità delle dichiarazioni accusatorie della persona offesa e, poi, in un secondo momento, la credibilità della ritrattazione, omettendo una ricostruzione completa del clima familiare, caratterizzato da un stato di soggezione acclarato, in cui era stata adottata la seconda determinazione di segno opposto.

La Suprema Corte di Cassazione – Sez. VI – con la pronuncia n. 44544/2024 ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza con rinvio al Tribunale competente ex art. 309 co. 7 c.p.p.

Scopriamo insieme le motivazioni…

La pronuncia ha rilevato la manifesta contraddittorietà dell’ordinanza del riesame che ha omesso una ricostruzione completa dei fatti dai quali emergeva un rapporto di soggezione consolidato nel tempo, connotato da violenze e minacce, peraltro confermato anche dal racconto dei familiari della persona offesa.

La vittima, al momento della ritrattazione, si trovava in uno stato di soggezione determinato dalla reiterazione di condotte di abuso perpetrate all’interno del contesto familiare.

La successiva ritrattazione appariva, pertanto, non spontanea ma riconducibile all’insistenza dell’indagato che, peraltro, aveva già anticipato ai carabinieri la ritrattazione della vittima.

Inoltre, la Corte ha censurato l’assenza di una valutazione autonoma circa le esigenze di tutela dell’incolumità della vittima.

Estinzione del reato per condotte riparatorie, persona offesa e pubblico ministero possono opporsi?

L’istituto disciplinato dall’art. 162 ter c.p. prevede che, per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, il giudice può dichiarare estinto il reato se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato ha riparato integralmente il danno.

I presupposti per ottenere l’estinzione del reato sono due: 1) la riparazione integrale del danno; 2) l’osservanza del limite temporale.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 41899/2024, Sez. V, ha ribadito che i requisiti per l’applicazione dell’istituto sono due, non rilevando l’eventuale opposizione formulata dal P.M. o dal difensore della parte civile.

La decisione ha evidenziato che la disposizione in esame, a differenza di quanto previsto dall’art. 469 c.p.p., non prevede la facoltà in capo al PM e all’imputato di opporsi.


Pertanto, il giudice potrà dichiarare l’estinzione del reato procedibile a querela nell’ipotesi in cui il risarcimento avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e sia integrale, senza che PM e difensore della parte civile possano opporsi.

Giova, infine, rilevare che la disposizione in esame non può essere applicata al reato di stalking ex art. 612 bis c.p., espressamente escluso dall’ultimo comma dell’art. 162 ter c.p.

Furto e aggravante dell’esposizione alla pubblica fede

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 21837/2022 riguarda un caso di furto di una borsa all’interno di un’autovettura.

Un uomo veniva arrestato e poi condannato per il reato di di furto aggravato dalla esposizione della cosa alla pubblica fede, ex art. 625 c.p., comma 1, n. 7, per avere prelevato una borsa contenente contanti, carte di pagamento e altri effetti personali, contenuta all’interno di un’autovettura di proprietà di terzi.

Non accettando la pronuncia di condanna adiva la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando che la borsa femminile non era da considerare come normale dotazione di un veicolo ed usualmente destinato alla custodia sulla persona del proprietario.


La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il motivo di gravame, richiamando la nozione di pubblica fede: 𝗶𝗹 𝘀𝗲𝗻𝘀𝗼 𝗱𝗶 𝗮𝗳𝗳𝗶𝗱𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘃𝗲𝗿𝘀𝗼 𝗹𝗮 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗲𝘁à 𝗮𝗹𝘁𝗿𝘂𝗶 𝗶𝗻 𝗰𝘂𝗶 𝗰𝗼𝗻𝗳𝗶𝗱𝗮 𝗰𝗵𝗶 𝗱𝗲𝘃𝗲 𝗹𝗮𝘀𝗰𝗶𝗮𝗿𝗲 𝘂𝗻𝗮 𝗰𝗼𝘀𝗮, 𝗮𝗻𝗰𝗵𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼𝗿𝗮𝗻𝗲𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗲 𝗶𝗻𝗰𝘂𝘀𝘁𝗼𝗱𝗶𝘁𝗮.

Inoltre, accanto ai beni esposti alla pubblica fede per destinazione e consuetudine, si collocano quelli quei beni che in tale condizione si trovino in ragione di impellenti bisogni della vita quotidiana.

L’aggravante di cui all’art. 625 c.p., n. 7, ricorre non solo in relazione all’azione furtiva avente per oggetto l’auto ma anche 𝗮 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗮 𝗿𝗶𝗴𝘂𝗮𝗿𝗱𝗮𝗻𝘁𝗲 𝗴𝗹𝗶 𝗼𝗴𝗴𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗶𝗻 𝗲𝘀𝘀𝗮 𝗰𝘂𝘀𝘁𝗼𝗱𝗶𝘁𝗶 che costituiscono un suo accessorio e che, comunque, non sono facilmente trasportabili dal detentore nel momento in cui si allontana dall’autovettura, tra questi, non è annoverabile la borsa.

Nel caso di contestazione del reato di furto è opportuno contattare un Avvocato Penalista.