Il fisioterapista può incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione di medico?

Il caso scelto per la rubrica “Dialoghi Penali” consente di esaminare i limiti correlati all’esercizio della professione di fisioterapista e le eventuali responsabilità di natura penale discendenti dal superamento dei predetti, che potrebbero determinare l’integrazione del reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.

Il caso…

Un fisioterapista veniva condannato per i reati ex artt. 348 e 609 co. 2 c.p. bis c.p. per aver esercitato abusivamente la professione di medico, in assenza della relativa abilitazione, eseguendo su diversi pazienti sedute fisioterapiche senza prescrizione medica, sostituendosi al sanitario nella diagnosi clinica e nell’elaborazione del programma riabilitativo.

Nel corso di alcuni trattamenti, abusando delle condizioni di inferiorità psichica delle persone offese, mediante azioni progressive ed invasive, volte a superare la loro resistenza, le avrebbe indotte a subire atti sessuali consistiti in penetrazioni della vagina o dell’ano con le dita.

La pronuncia di condanna alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione veniva confermata dalla Corte di Appello di Cagliari, che rigettava le censure sollevate con il gravame dalla difesa dell’imputato.

L’imputato, per il tramite del difensore, ha impugnato la sentenza emessa dalla Corte di Appello sollevando con il ricorso differenti motivi di doglianza.

Ci soffermiamo esclusivamente su quelli con i quali la difesa ha sostenuto, in primis l’insussistenza del reato ex art. 348 c.p. e, poi, la configurabilità dell’errore ex art. 47 c.p.

La decisione…

La Corte nel rigettare la prima doglianza ha evidenziato che il fisioterapista ha posto in essere attività di spettanza medica, avendo formulato una diagnosi e redatto un programma di sedute sulla base dei dolori e dei fastidi riferiti dalla paziente.

“La laurea in fisioterapia non abilita ad alcuna attività di diagnosi, consentendo al fisioterapista il solo svolgimento, anche in autonomia, di attività esecutiva della prescrizione medica”.

Occorre rilevare, peraltro, da una lettura della normativa di settore, in particolare dalla Legge n. 251 del 2000 e dal Decreto Ministeriale n. 741 del 1994, che il fisioterapista ha un’autonomia esclusivamente nell’ambito del profilo e delle competenze professionali proprie della figura, sempre in rapporto con le diagnosi e prescrizioni di stretta competenza medica.

Ciò significa che l’attività fisioterapica deve necessariamente inserirsi all’interno di una preliminare individuazione del problema clinico e del tipo di risposta riabilitativa necessaria, oltre che della verifica dei risultati, nel rispetto delle prerogative che la normativa statale attribuisce al medico e al fisiatra.

Il fisioterapista può certamente procedere a una valutazione delle condizioni funzionali del paziente nell’ambito delle proprie competenze riabilitative, ma tale attività deve rimanere circoscritta agli aspetti strettamente attinenti al percorso riabilitativo già delineato dalla prescrizione medica.

Quando invece il professionista si spinge a formulare giudizi diagnostici sulle cause del malessere, a individuare patologie o alterazioni organiche, o a predisporre autonomamente programmi terapeutici, si configura l’invasione dell’ambito di competenza esclusivamente medica.

La Corte ha rigettato, altresì, la richiesta di riconoscimento dell’errore ex art. 47 c.p. sulla conoscenza della disciplina di settore che si traduce in errore di diritto di mancata conoscenza della legge extra-penale, in quanto evitabile con l’ordinaria diligenza informativa.

Nonostante il rigetto dei motivi di ricorso esaminati, la Corte ha rilevato il decorso dei termini di prescrizione del reato, dichiarando l’estinzione del predetto.

Infine, quanto al reato ex art. 609 bis c.p. la Corte ha annullato la pronuncia limitatamente ai motivi relativi al trattamento sanzionatorio e alla pena accessoria.

Codice Rosso e beneficio della sospensione condizionale della pena

Un uomo veniva condannato per il reato ex art. 572 c.p. per aver posto in essere differenti aggressioni ai danni dell’ex coniuge.

Il giudice non ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, che per i reati previsti dal Codice Rosso, presuppone la partecipazione ad un corso di recupero da parte dell’autore del reato.

La decisione è stata confermata in sede di appello.

L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione lamentando la violazione dell’art. 165 co. 5 c.p. per la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Ha rappresentato, da un lato, l’insussistenza di una volontà contraria rispetto all’obbligo di legge e, dall’altro, che alcuna disposizione impone una previa adesione, essendo la stessa implicita nella richiesta di riconoscimento del beneficio.

La Suprema Corte,  nell’accogliere la doglianza sollevata dalla difesa, ha evidenziato che la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena è necessariamente subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero pressi enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati, non occorrendo il consenso dell’imputato a detta partecipazione.

La 𝐫𝐢𝐜𝐡𝐢𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐛𝐞𝐧𝐞𝐟𝐢𝐜𝐢𝐨, 𝐟𝐨𝐫𝐦𝐮𝐥𝐚𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐝𝐞 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐮𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐬𝐨𝐫𝐞, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐮𝐩𝐩𝐨𝐧𝐞 𝐮𝐧’𝐢𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐞𝐨.

Reato di diffamazione e esimente della provocazione ex art. 599 co. 2 c.p.

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” consente di esplorare il rapporto tra il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. e la causa di non punibilità della provocazione ex art. 599 co. 2 c.p.

Il caso origina dall’offesa rivolta da un’attivista per i diritti umani ad un veterinario.

L’attivista offendeva quest’ultimo scrivendo su suo profilo facebook: “GENTE!!!!!! VI PRESENTO LA MERDA DI VETERINARIO N. 1 IN ITALIA“.

Tratta a giudizio per il reato di diffamazione aggravata veniva condannata in primo grado, con pronuncia confermata in appello.

Per il tramite del proprio difensore, contro la statuizione di condanna, proponeva ricorso per Cassazione, sollevando due motivi di censura:

  • Inosservanza o erronea applicazione del reato ex art. 595 c.p. in quanto l’offesa formulata sul profilo personale della persona offesa poteva essere percepita direttamente da quest’ultima con integrazione del reato di ingiuria, ormai abrogato.
  • Omesso riconoscimento della causa di non punibilità/esimente della provocazione ex art. 599 co. 2 c.p.

La Corte disattendeva il primo motivo di ricorso evidenziando che la pubblicazione di un post offensivo su un profilo facebook può essere percepita da una pluralità di destinatari e, pertanto, la condotta non può che integrare il reato di diffamazione.

Peraltro, nel caso in esame la persona offesa aveva scoperto l’offesa da un amico che l’aveva rinvenuta sul profilo personale del primo.

Diversamente, ove l’offesa fosse stata arrecata in una chat privata il destinatario avrebbe avuto diretta percezione della stessa con conseguente integrazione del reato di ingiuria, ormai depenalizzato.

La Corte, invece, ha accolto il secondo motivo di impugnazione, ritenendo configurabile l’esimente della provocazione ex art. 599 co. 2 c.p., che presuppone il fatto ingiusto altrui e il correlato stato d’ira ad esso ricollegabile.

Dall’istruttoria è emerso che l’attivista per i diritti degli animali aveva seguito attentamente la vicenda dei cani di razza beagle sui quali veniva eseguita una sperimentazione che, poi, aveva portato alla condanna in sede penale del veterinario, con sentenza passata in cosa giudicata.

Di recente, l’attivista aveva appreso della sospensione e non della radiazione del veterinario, decidendo di pubblicare il post offensivo.

Nella sostanza non condividendo il provvedimento disciplinare che riteneva non adeguato alla condotta suesposta, rivivendo il sentimento di rabbia ricollegabile alla vicenda pregressa lo aveva apertamente denigrato.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20392/2025, ha accolto il ricorso per Cassazione, limitatamente al secondo punto, ritenendo riconoscibile l’esimente della provocazione ex art. 599 c.p. in ragione della sussistenza di un fatto ingiusto altrui, conclamato da una sentenza di condanna passata in cosa giudicata, nonché lo stato d’ira ingenerato nell’imputata dalla mancata radiazione del veterinario.

Il termine aggiuntivo di 15 giorni per proporre impugnazione si applica anche nell’ipotesi di imputato che abbia conferito al difensore procura speciale?

𝐈𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐨: un uomo veniva condannato per il reato ex art. 73 co. 5 del D.P.R. n. 309/1990 per aver detenuto illecitamente 5 grammi di cocaina.

𝐋𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐬𝐚: il difensore proponeva appello avverso la sentenza di primo grado non osservando il termine di giorni 45, ritenendo applicabile il termine aggiuntivo previsto dall’art. 585 co. 1 bis c.p.p., in ragione dell’𝐚𝐬𝐬𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐢𝐦𝐩𝐮𝐭𝐚𝐭𝐨; la Corte di Appello, investita del gravame, lo dichiarava inammissibile, evidenziando che il conferimento della procura speciale al difensore escludeva che l’imputato potesse essere considerato assente.

𝐋𝐚 𝐝𝐞𝐜𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞: Contro la decisione l’imputato, per il tramite del difensore, proponeva ricorso per Cassazione, non condividendo la declaratoria di inammissibilità. La Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha osservato che 𝐥’𝐚𝐫𝐭. 𝟒𝟐𝟎 𝐜𝐨. 𝟐 𝐭𝐞𝐫 𝐜.𝐩.𝐩. 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐢𝐝𝐞𝐫𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐥’𝐢𝐦𝐩𝐮𝐭𝐚𝐭𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐚𝐛𝐛𝐢𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐟𝐞𝐫𝐢𝐭𝐨 𝐩𝐫𝐨𝐜𝐮𝐫𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐚𝐥𝐞 𝐚𝐥 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐬𝐨𝐫𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥’𝐚𝐜𝐜𝐞𝐬𝐬𝐨 𝐚𝐢 𝐫𝐢𝐭𝐢 𝐚𝐥𝐭𝐞𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢𝐯𝐢, ipotesi ricorrente nel caso in esame.

Ha rilevato, altresì, che soltanto nell’ipotesi di imputato ASSENTE, in sede di impugnazione, quest’ultimo può giovarsi dell’ulteriore termine di giorni 15.

L’integrale pagamento del debito tributario esclude la punibilità per il reato di fatture per operazioni inesistenti?

𝐈𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐨: un uomo veniva condannato per il reato di fatture per operazioni inesistenti ex art. 8 del D. Lgs. n. 74/2000, senza il riconoscimento dell’attenuante ex art. 13 bis del citato decreto legislativo nonostante il pagamento del debito tributario prima del dibattimento.

𝐋𝐚 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐬𝐚: Contro la sentenza di condanna, confermata in appello, l’imputato, per il tramite del difensore, ha proposto ricorso per Cassazione ritenendo la predetta decisione viziata per l’omesso riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 13 bis del citato decreto legislativo.

𝐋𝐚 𝐝𝐞𝐜𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞: La Suprema Corte di Cassazione ha accolto il ricorso evidenziando che anche l’emissione di fatture per operazioni inesistenti genera l’obbligo di integrale pagamento del debito tributario a cui si ricollegano tre effetti favorevoli:
– possibilità di accedere al rito alternativo ex art. 444 c.p.p.;
– riconoscimento dell’attenuante ex art. 13 bis del D. Lgs n. 74/2000;
– esclusione delle esigenze cautelari alla base del sequestro preventivo finalizzato alla confisca.

La decisione, peraltro, evidenzia che per il reato di fatture per operazioni inesistenti il pagamento integrale del debito tributario non consente di beneficiare della causa di non punibilità ex art. 13 bis del citato decreto in quando la 𝐟𝐢𝐧𝐚𝐥𝐢𝐭𝐚̀ 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐞𝐚𝐭𝐨 𝐞̀ 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐧𝐬𝐞𝐧𝐭𝐢𝐫𝐞 𝐚 𝐭𝐞𝐫𝐳𝐢 𝐥’𝐞𝐯𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐟𝐢𝐬𝐜𝐚𝐥𝐞, 𝐜𝐨𝐧𝐟𝐢𝐠𝐮𝐫𝐚𝐧𝐝𝐨𝐬𝐢 𝐪𝐮𝐢𝐧𝐝𝐢 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐮𝐧 𝐢𝐥𝐥𝐞𝐜𝐢𝐭𝐨 𝐬𝐭𝐫𝐮𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐥𝐞 𝐫𝐢𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐨 𝐚𝐥𝐥’𝐞𝐯𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐥𝐭𝐫𝐮𝐢. 𝐈𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐩𝐫𝐨𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐢𝐯𝐚, 𝐢𝐥 𝐩𝐚𝐠𝐚𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐞𝐛𝐢𝐭𝐨 𝐭𝐫𝐢𝐛𝐮𝐭𝐚𝐫𝐢𝐨 𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐦𝐢𝐭𝐭𝐞𝐧𝐭𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐞𝐥𝐢𝐦𝐢𝐧𝐚 𝐢𝐥 𝐝𝐢𝐬𝐯𝐚𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐨𝐭𝐭𝐚, 𝐜𝐡𝐞 𝐫𝐢𝐦𝐚𝐧𝐞 𝐢𝐧𝐭𝐞𝐠𝐫𝐨 𝐧𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐮𝐚 𝐝𝐢𝐦𝐞𝐧𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐚𝐠𝐞𝐯𝐨𝐥𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥’𝐞𝐯𝐚𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐨𝐠𝐠𝐞𝐭𝐭𝐢 𝐭𝐞𝐫𝐳𝐢.

Acquisizione dei tabulati telefonici e dei dati della geolocalizzazione: quando ricorre l’inutilizzabilità patologica?

𝗜𝗹 𝗰𝗮𝘀𝗼: Un uomo veniva tratto a giudizio per i reati ex artt. 73 del D.P.R. n. 309/90 e 56 e 629 c.p. sulla base delle dichiarazioni rilasciate da un imputato di reato collegato ex art. 371 co. 2 lett. b) c.p.p. confermate dagli esiti raccolti attraverso l’acquisizione dei tabulati e il contenuto delle intercettazioni telefoniche disposte dal P.M..

𝗟𝗮 𝗱𝗶𝗳𝗲𝘀𝗮: il difensore eccepiva la violazione dell’art. 132 del D. Lgs. n. 193/2006 nella parte in cui esclude che il pubblico ministero possa acquisire i tabulati telefonici e i dati della geolocalizzazione senza un decreto motivato del giudice; eccezione disattesa sia in primo grado che in quello di appello.

𝗟𝗮 𝗱𝗲𝗰𝗶𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲: la Suprema Corte di Cassazione, con la decisione in commento, ha accolto il motivo formulato dalla difesa dell’imputato, evidenziando che i 𝘁𝗮𝗯𝘂𝗹𝗮𝘁𝗶 acquisiti senza la previa autorizzazione del giudice o senza la successiva convalida sono inutilizzabili ex art. 132.

La perentorietà del divieto determina l’𝗶𝗻𝘂𝘁𝗶𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮𝗯𝗶𝗹𝗶𝘁à 𝗮𝘀𝘀𝗼𝗹𝘂𝘁𝗮 𝗼 𝗽𝗮𝘁𝗼𝗹𝗼𝗴𝗶𝗰𝗮 𝗱𝗲𝗶 𝗱𝗮𝘁𝗶 𝗱𝗲𝗶 𝘁𝗿𝗮𝗳𝗳𝗶𝗰𝗶 𝘁𝗲𝗹𝗲𝗳𝗼𝗻𝗶𝗰𝗶 acquisiti senza un provvedimento di autorizzazione o di convalida del giudice.

Nel caso in esame l’imputato è stato assolto in quanto le dichiarazioni del coimputato non hanno trovato riscontro in ulteriori e differenti elementi probatori, rispetto a quelli dichiarati non utilizzabili.

Messa alla prova e imputato sopposto a misura cautelare personale

Il caso

Un uomo, accusato del reato ex art. 600 quater c.p., formulava tempestivamente, a mezzo del proprio difensore, richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova che, tuttavia, veniva rigettata.

Il Giudice non accoglieva l’istanza in quanto, al momento della sua presentazione, l’imputato era sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari per il pericolo di recidiva e, pertanto, formulava una prognosi negativa.

Condannato in primo grado l’imputato reiterava la richiesta nei motivi di appello, ma l’istanza sortiva analoga sorte.

La decisione

La Suprema Corte di Cassazione, a seguito di regolare proposizione di atto di impugnazione, ha accolto sul punto la censura dell’imputato, rilevando che il diniego ancorato esclusivamente ad una valutazione discendente dall’attualità della misura cautelare personale in corso, non appare conforme ai differenti parametri ex art. 133 c.p. , anche in considerazione della condotta collaborativa tenuta in sede di perquisizione dal ricorrente e del successivo percorso intrapreso nel periodo di restrizione, elementi esclusi arbitrariamente dal Giudice di merito nella sua valutazione.

La decisione, pertanto, è stata annullata con rinvio per un novo giudizio.

Stalking e condominio

Risponde del reato di stalking il condomino che, con le maniere forti, cerca di impedire ai proprietari la locazione di alcuni appartamenti?

Il protagonista della vicenda giudiziaria, decisa con la pronuncia n. 18348/2025 della Suprema Corte di Cassazione, è un condomino che avrebbe posto in essere, in più occasioni, aggressioni sia fisiche che verbali ai danni degli occupanti di abitazioni concesse in locazione da due condomini dello stesso stabile; peraltro gli episodi descritti nelle diverse denunce presentate all’Autorità Giudiziaria erano connotati da una gravità crescente.

In primo grado l’imputato veniva assolto dall’accusa di stalking ex art. 612 bis c.p. , mentre, in secondo grado, la Corte ha stravolto la decisione, ritenendo dimostrata la pluralità degli episodi verificatisi in un arco di tempo esteso ai danni dei conduttori e la pervicacia dell’autore tale da indurre una delle persone offese a vendere l’immobile e, al contempo, ad ingenerare nella predetta un forte stato di ansia.

La sentenza di condanna, impugnata innanzi alla Suprema Corte di Cassazione, è stata censurata sia per la carenza di prova circa la pluralità degli episodi descritti nell’imputazione, sia per l’insussistenza del requisito soggettivo del reato.

Le doglianze sollevate non sono state ritenute idonee a scalfire la pronuncia di condanna e, pertanto, il ricorso è stato rigettato.

La Corte ha evidenziato che sono stati individuati, in modo puntuale, differenti comportamenti dell’imputato integranti molestie o minacce idonei, da un lato, a ingenerare delle conseguenze pregiudizievoli per le persone offese e, dall’altro, a rivelare un intento persecutorio del ricorrente.

La risposta è, quindi, positiva.

Accusare un uomo di percepire canoni di locazione in nero integra il reato di diffamazione?

L’accusa rivolta ad un umo di percepire canoni di locazione in nero integra il reato di diffamazione?

La vicenda giudiziaria origina dall’invio di una missiva all’amministratore di condominio con cui si denunciava che la società proprietaria di uno degli immobili aveva percepito differenti canoni di locazione in nero.

Il conduttore, autore della comunicazione, veniva tratto a giudizio e condannato con sentenza, confermata in appello, per il reato di diffamazione ex art. 595 c.p..

L’imputato, non condividendo le motivazione del giudice di Appello, adiva la Suprema Corte di Cassazione sollevando plurimi motivi di censura:

1) intempestività della denuncia/querela;

2) assenza della comunicazione a più destinatari;

3) carenza di prova circa l’elemento soggettivo del reato.

La Suprema Corte ha accolto il terzo motivo del ricorso evidenziando che la sussistenza di rapporti conflittuali tra le parti che, peraltro, ha dato luogo ad un giudizio civile, comprova che l’imputato intendesse soltanto denunciare un comportamento delle persone offese apertamente lesivo di disposizioni civili e tributarie.

La condotta, pertanto, non era sorretta dall’intenzione di offendere la reputazione di queste ultime.

Sul punto, di recente, si è pronunciata la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n.  22335/2025.

La risposta è, quindi, negativa.

Il detenuto sorpreso nella disponibilità di un telefono cellulare risponde del reato ex art. 391 ter c.p.?

Il protagonista della vicenda giudiziaria esaminata all’interno della rubrica “Dialoghi Penali” è un detenuto trovato, a seguito di una perquisizione, in possesso di un cellulare privo di batteria, SIM e cavo di alimentazione.

Ciò nonostante, tratto a giudizio per il reato ex art. 391 ter c.p. è stato condannato dal Tribunale di Napoli, con sentenza confermata in appello.

Contro la decisione l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione lamentando che il cellulare fosse inidoneo all’uso e, pertanto, la condotta non potesse integrare, sotto il profilo oggettivo, il reato in contestazione.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 25746/2025 ha accolto il ricorso, annullando la decisione di merito.

Occorre rilevare che la fattispecie penale enuclea due reati, previsti nel primo e nel terzo comma, i quali sono puniti con la stessa pena della reclusione da uno a quattro anni.

Il terzo comma dell’art. 391-ter cod. pen., ipotesi contestata al detenuto, prevede un reato proprio, il cui soggetto attivo qualificato è il “detenuto“, che può essere chiamato a rispondere di due condotte, in via alternativa.

E’ sanzionata sia la condotta di ricezione che quella di utilizzodi un apparecchio telefonico o di altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni.

Il presupposto di entrambi i reati di cui al primo e al terzo comma dell’art. 391 -ter cod. pen. è che l‘accesso a dispositivi idonei alla comunicazione sia indebito.

L’obiettivo perseguito, ossia impedire indebite comunicazioni da parte dei detenuti sia tra loro che all’esterno, e il principio di offensività impongono di considerare quale oggetto delle condotte materiali sanzionate dall’art. 391-ter cod. pen. il solo dispositivo nella sua unitarietà; diversamente, si finirebbe per estendere la tutela penale a fatti privi di offensività.

La disposizione, come sopra richiamato, presuppone che l’apparecchio telefonico o altro dispositivo siano idonei ad effettuare comunicazioni, circostanza non ricorrente nel caso in esame in considerazione dell’assenza di una SIM e di una batteria, non rinvenute a seguito della perquisizione.

Il mancato ritrovamento di batteria e SIM ha consentito alla difesa di sostenere, con forza, che l’apparecchio fosse inidoneo a ledere il bene giuridico protetto dalla disposizione in esame.

In ragione di tali argomentazioni, la Suprema Corte di Cassazione ha pronunciato sentenza di annullamento con la formula perché il fatto non sussiste.