La vicenda giudiziaria che di qui a breve esploreremo affronta il delicato rapporto tra il reato di diffamazione ex art. 595 c.p. e il diritto di critica ex art. 51 c.p.
L’art. 595 c.p. tutela la “reputazione” ovvero la stima che gli altri hanno della sfera morale di una persona nell’ambiente in cui essa vive. La condotta sanzionata consiste nell’offesa rivolta ad una persona non presente alla presenza di almeno due individui.
Il comportamento esposto sarà scriminato ovvero non punibile in ipotesi di esercizio del diritto di cronaca, critica e satira, purché attuato nei limiti di verità, continenza e pertinenza. In primis, occorre che la notizia sia vera o comunque seriamente accertata, di pubblico interesse e, infine, l’esposizione dei fatti deve essere mantenuta nei limiti della correttezza e senza espressioni offensive inutili e gratuite (c.d. limite della continenza).
L’esercizio del diritto nelle sue diverse forme trova riconoscimento nell’art. 51 c.p. e costituisce, come intuibile, espressione del principio riconosciuto dalla Carta Costituzionale del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.
Il caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 17813/2023 riguarda l’invio di una missiva da parte di alcuni genitori al preside della scuola, con la quale venivano rappresentati gravi episodi commessi da un’insegnante ai danni dei propri figli.
I genitori, che intendevano proteggere i minori, venivano tratti a giudizio per il reato di diffamazione ex art. 595 c.p., a seguito di denuncia presentata dall’insegnante, citata nella missiva, che riteneva di essere stata ingiustamente denigrata.
Ebbene, le pronunce di primo e secondo grado ritenevano sussistente la scriminante del diritto di critica, sebbene nella forma putativa. La scriminante è da intendersi in forma putativa allorquando gli agenti siano convinti di agire in presenza di una notizia presumibilmente versa che, nel caso che ci occupa, ha trovato sostegno nei racconti convincenti e sovrapponibili dei diversi alunni.
Anche la Suprema Corte di Cassazione, adita dagli eredi dell’insegnante deceduta nelle more del ricorso, riconosceva la scriminante nella forma putativa in considerazione dell’individuazione di una pluralità di fonti di prova che comprovavano che l’insegnante aveva posto in essere plurimi comportamenti poco consoni al ruolo ricoperto e, al contempo, ha ritenuto corretto l’inoltro della comunicazione al preside della scuola.