Tenuità del fatto e reati contro i pubblici ufficiali

La Corte Costituzionale con sentenza n. 172/2025 del 27 Novembre ha dichiarato incostituzionale l’art. 131 bis c.p. nella parte in cui esclude l’applicabilità della causa di non punibilità con riguardo ai reati previsti dall’art. 336 e 337 c.p.

La Corte ha osservato, in via preliminare, che la causa di non punibilità è applicabile al reato previsto dall’art. 338 c.p., che punisce la violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, prevedendo la pena della reclusione da uno a sette anni.

Il trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 338 c.p. è più severo rispetto a quello previsto dagli artt. 336 e 337 c.p. , in quanto tutela l’autorità pubblica costituta in collegio.

La Corte ha evidenziato che l’esclusione della causa di non punibilità per i reati meno gravi (artt. 336 e 337 c.p.) viola apertamente l’art. 3 della Costituzione, apparendo irragionevole consentire al Giudice la facoltà di riconoscere l’art. 131 bis nei riguardi di un fatto oggettivamente più grave, per il quale è previsto un trattamento sanzionatorio più severo.

Pertanto, a fronte di una probabile condanna per i reati ex art. 336 o 337 c.p., i difensori degli imputati potranno richiedere l’applicazione della causa di non punibilità a condizione che l’offesa sia di particolare tenuità e la condotta non sia abituale.

 

L’Agente di polizia municipale che interviene fuori dal servizio e in abiti civili riveste la qualifica del pubblico ufficiale?

Il caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 13264/2025, investe il tema della qualifica di pubblico ufficiale in capo all’agente della polizia municipale che interviene, in abiti civili e fuori servizio, per sventare una truffa.

𝗜𝗹 𝗰𝗮𝘀𝗼: un agente della polizia municipale interveniva in abiti civili e fuori dal servizio per sventare una truffa ai danni di un automobilista.

L’autore del reato veniva condannato, con sentenza confermata in Appello, per il reato di resistenza a un pubblico ufficiale ex art. 337 c.p..

𝗟𝗮 𝗱𝗶𝗳𝗲𝘀𝗮: l’imputato, per il tramite del difensore, ha proposto ricorso per Cassazione contestando la sussistenza della qualifica di pubblico ufficiale in capo alla persona offesa, in quanto quest’ultima interveniva in abiti civili e fuori dall’orario di servizio.

𝗟𝗮 𝗱𝗲𝗰𝗶𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲: La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso evidenziando che gli appartenenti alla polizia municipale sono agenti di polizia giudiziaria in forza del combinato disposto dell’art. 5 della I. n. 65 del 7 marzo 1986 e dell’art. 57, comma 2, lett. b) c.p.p. purché, quando
esercitano il loro potere di intervento, si trovino nell’ambito territoriale dell’ ‘ente di appartenenza» durante il servizio e rispettino le attribuzioni loro riconosciute tra le quali l’accertamento dei reati.

“La locuzione contenuta nell’art. 57, comma 2, lett. b) cod. proc. pen. «𝗾𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗶𝗻 𝘀𝗲𝗿𝘃𝗶𝘇𝗶𝗼» va interpretata in chiave funzionale, cioè con riferimento al rapporto di impiego e non all’orario di lavoro.

Ne consegue che la condotta illecita del ricorrente è stata commessa mentre l’agente della polizia municipale compiva un atto dell’ufficio di appartenenza, con conseguente integrazione del reato ex art. 337 c.p.

L’impiegato postale che sottrae il corrispettivo del servizio in contrassegno risponde di peculato?

Il protagonista della vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” è un impiegato postale, con mansioni di responsabile del centro primario di distribuzione, accusato del reato di peculato ex art. 314 c.p. per aver sottratto € 570,00 di incassi per spedizioni con contrassegno.

Il reato di peculato sanziona la condotta di appropriazione di denaro o di una cosa mobile altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio.

Il presupposto è il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile.

La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di condanna di primo grado, rigettando la tesi difensiva che sosteneva l’insussistenza dei presupposti della fattispecie incriminatrice disciplinata dall’art. 314 c.p.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello evidenziando che la condotta poteva integrare gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., in quanto il servizio svolto non aveva natura pubblica e, inoltre, risultava assente in capo all’imputato la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Il reato ex art. 646 c.p. può essere definito una forma di appropriazione non qualificata in quanto l’autore della condotta non deve rivestire alcuna qualifica.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 41788/2024 – Sez. VI, ha riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita, annullando senza rinvio la decisione perché il reato risultava estinto per prescrizione.

Vediamo insieme le motivazione della pronuncia.

In primis, occorre rilevare che il servizio in contrassegno (pagamento al corriere alla consegna del pacco) non è un servizio svolto da Poste in via esclusiva, bensì operato in regime di concorrenza sul mercato.

Pertanto, poiché si tratta di un’attività svolta liberamente sul mercato, da più soggetti, in regime di concorrenza, non è inquadrabile tra i servizi pubblici.

Inoltre, deve rilevarsi che l’imputato preposto all’interno della struttura postale all’annotazione delle somme ricevute, non svolge un’attività riconducibile alla qualifica di pubblico ufficiale in quanto non ha poteri autoritativi né di natura certificativa.

Inoltre, non è riconducibile a quella di incaricato di pubblico servizio dal momento che si tratta di un’attività materiale in esecuzione di ordini di servizio o di prescrizioni impartite da superiori gerarchici.