La riduzione di 1/6 per il giudizio abbreviato e i rapporti con la continuazione

La riduzione ulteriore di 1/6 si applica soltanto per i reati per i quali, in sede di giudizio abbreviato, il giudice ha emesso sentenza di condanna e contro la quale non è stato interposto atto di gravame.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione origina dalla censura mossa contro la decisione che ha riconosciuto la riduzione ulteriore di 1/6 soltanto nei riguardi della pena comminata per i reati oggetto del giudizio abbreviato, escludendo il beneficio sulla pena finale, ottenuta a seguito del riconoscimento della continuazione con i reati giudicati con altre precedenti sentenze.

La Corte ha osservato che il presupposto per l’applicazione dell’ulteriore sconto di pena nel rito speciale è individuato nell’irrevocabilità della decisione di primo grado per mancata proposizione dell’impugnazione da parte dell’imputato, a cui non è assimilabile la rinuncia successiva.

Inoltre il presupposto dell’irrevocabilità della decisione soggiace al principio del “tempus regit actum” e, pertanto, l’ulteriore riduzione presuppone che la decisione sia passata in cosa giudicata dopo l’entrata in vigore della Riforma Cartabia.

Peraltro, la riduzione di 1/6 ha una finalità differente da quale di 1/3, in quanto ha l’obiettivo di ridurre il carico giudiziario, evitando l’instaurazione del giudizio di Appello.

Ferme queste premesse, la Corte ha rigettato il ricorso evidenziando che la riduzione ulteriore di 1/6 trova applicazione limitatamente ai reati per i quali l’imputato ha formulato richiesta di giudizio abbreviato e, dopo la pronuncia di condanna, non ha proposto atto di gravame. Con riferimento agli altri per i quali è stato riconosciuto la continuazione, in sede esecutiva, non si ravvisa alcuna ragione per estendere un beneficio esclusivo dei reati giudicati con il rito alternativo.

L’esclusione dell’aggravante ex art 628 co. 3 c.p. consente di applicare la pena sostitutiva della detenzione domiciliare?

La decisione della Suprema Corte di Cassazione ha vagliato il riconoscimento della pena sostitutiva della detenzione domiciliare nei confronti di un imputato condannato per il reato di rapina.

𝐈𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐨: Un uomo veniva condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione per aver commesso una rapina aggravata ex art. 628 co. 3 n. 3 bis c.p.; con la pronuncia il giudice concedeva la sostituzione della pena detentiva con quella della detenzione domiciliare.

𝐈𝐥 𝐏𝐫𝐨𝐜𝐮𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐞 𝐆𝐞𝐧𝐞𝐫𝐚𝐥𝐞: contro la decisione veniva proposto ricorso per Cassazione; il Procuratore Generale sosteneva, con i motivi, la ricorrenza di una manifesta violazione di legge in quanto l’art. 59 della L. n. 689/1981 non consente di operare la sostituzione della pena detentiva allorquando ricorra uno dei reati ostativi elencati dall’art. 4 bis della L. n. 354/1975.

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𝐋𝐚 𝐝𝐞𝐜𝐢𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞: La Suprema Corte di Cassazione ha evidenziato che, nel caso vagliato, non sussiste una violazione dell’art. 59 della L. n. 689/1981, in quanto il Giudice di primo Grado, in motivazione, ha escluso la citata aggravante, non soltanto ai fini sanzionatori, ma in fatto.

Invero, il Tribunale ha espressamente riconosciuto che il delitto non è stato commesso in un luogo di privata dimora e, pertanto, è stata corretta la determinazione in ordine all’accoglimento della richiesta di sostituzione.

La Corte ha evidenziato che non è sufficiente la mera contestazione dell’aggravante per escludere i benefici di cui sopra se, poi, il giudice ritiene la predetta circostanza non configurabile.

Se, invece, il giudice avesse escluso la ricorrenza dell’aggravante speciale sulla base di un giudizio di bilanciamento delle circostanze, l’imputato non avrebbe potuto richiedere la pena sostitutiva.

Il fisioterapista può incorrere nel reato di esercizio abusivo della professione di medico?

Il caso scelto per la rubrica “Dialoghi Penali” consente di esaminare i limiti correlati all’esercizio della professione di fisioterapista e le eventuali responsabilità di natura penale discendenti dal superamento dei predetti, che potrebbero determinare l’integrazione del reato di esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.

Il caso…

Un fisioterapista veniva condannato per i reati ex artt. 348 e 609 co. 2 c.p. bis c.p. per aver esercitato abusivamente la professione di medico, in assenza della relativa abilitazione, eseguendo su diversi pazienti sedute fisioterapiche senza prescrizione medica, sostituendosi al sanitario nella diagnosi clinica e nell’elaborazione del programma riabilitativo.

Nel corso di alcuni trattamenti, abusando delle condizioni di inferiorità psichica delle persone offese, mediante azioni progressive ed invasive, volte a superare la loro resistenza, le avrebbe indotte a subire atti sessuali consistiti in penetrazioni della vagina o dell’ano con le dita.

La pronuncia di condanna alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione veniva confermata dalla Corte di Appello di Cagliari, che rigettava le censure sollevate con il gravame dalla difesa dell’imputato.

L’imputato, per il tramite del difensore, ha impugnato la sentenza emessa dalla Corte di Appello sollevando con il ricorso differenti motivi di doglianza.

Ci soffermiamo esclusivamente su quelli con i quali la difesa ha sostenuto, in primis l’insussistenza del reato ex art. 348 c.p. e, poi, la configurabilità dell’errore ex art. 47 c.p.

La decisione…

La Corte nel rigettare la prima doglianza ha evidenziato che il fisioterapista ha posto in essere attività di spettanza medica, avendo formulato una diagnosi e redatto un programma di sedute sulla base dei dolori e dei fastidi riferiti dalla paziente.

“La laurea in fisioterapia non abilita ad alcuna attività di diagnosi, consentendo al fisioterapista il solo svolgimento, anche in autonomia, di attività esecutiva della prescrizione medica”.

Occorre rilevare, peraltro, da una lettura della normativa di settore, in particolare dalla Legge n. 251 del 2000 e dal Decreto Ministeriale n. 741 del 1994, che il fisioterapista ha un’autonomia esclusivamente nell’ambito del profilo e delle competenze professionali proprie della figura, sempre in rapporto con le diagnosi e prescrizioni di stretta competenza medica.

Ciò significa che l’attività fisioterapica deve necessariamente inserirsi all’interno di una preliminare individuazione del problema clinico e del tipo di risposta riabilitativa necessaria, oltre che della verifica dei risultati, nel rispetto delle prerogative che la normativa statale attribuisce al medico e al fisiatra.

Il fisioterapista può certamente procedere a una valutazione delle condizioni funzionali del paziente nell’ambito delle proprie competenze riabilitative, ma tale attività deve rimanere circoscritta agli aspetti strettamente attinenti al percorso riabilitativo già delineato dalla prescrizione medica.

Quando invece il professionista si spinge a formulare giudizi diagnostici sulle cause del malessere, a individuare patologie o alterazioni organiche, o a predisporre autonomamente programmi terapeutici, si configura l’invasione dell’ambito di competenza esclusivamente medica.

La Corte ha rigettato, altresì, la richiesta di riconoscimento dell’errore ex art. 47 c.p. sulla conoscenza della disciplina di settore che si traduce in errore di diritto di mancata conoscenza della legge extra-penale, in quanto evitabile con l’ordinaria diligenza informativa.

Nonostante il rigetto dei motivi di ricorso esaminati, la Corte ha rilevato il decorso dei termini di prescrizione del reato, dichiarando l’estinzione del predetto.

Infine, quanto al reato ex art. 609 bis c.p. la Corte ha annullato la pronuncia limitatamente ai motivi relativi al trattamento sanzionatorio e alla pena accessoria.

Codice Rosso e beneficio della sospensione condizionale della pena

Un uomo veniva condannato per il reato ex art. 572 c.p. per aver posto in essere differenti aggressioni ai danni dell’ex coniuge.

Il giudice non ha concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, che per i reati previsti dal Codice Rosso, presuppone la partecipazione ad un corso di recupero da parte dell’autore del reato.

La decisione è stata confermata in sede di appello.

L’imputato ha proposto ricorso per Cassazione lamentando la violazione dell’art. 165 co. 5 c.p. per la mancata concessione della sospensione condizionale della pena.

Ha rappresentato, da un lato, l’insussistenza di una volontà contraria rispetto all’obbligo di legge e, dall’altro, che alcuna disposizione impone una previa adesione, essendo la stessa implicita nella richiesta di riconoscimento del beneficio.

La Suprema Corte,  nell’accogliere la doglianza sollevata dalla difesa, ha evidenziato che la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena è necessariamente subordinata alla partecipazione a specifici percorsi di recupero pressi enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati, non occorrendo il consenso dell’imputato a detta partecipazione.

La 𝐫𝐢𝐜𝐡𝐢𝐞𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐢 𝐫𝐢𝐜𝐨𝐧𝐨𝐬𝐜𝐢𝐦𝐞𝐧𝐭𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐛𝐞𝐧𝐞𝐟𝐢𝐜𝐢𝐨, 𝐟𝐨𝐫𝐦𝐮𝐥𝐚𝐭𝐚 𝐢𝐧 𝐬𝐞𝐝𝐞 𝐝𝐢 𝐝𝐢𝐬𝐜𝐮𝐬𝐬𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐝𝐢𝐟𝐞𝐧𝐬𝐨𝐫𝐞, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐮𝐩𝐩𝐨𝐧𝐞 𝐮𝐧’𝐢𝐦𝐩𝐥𝐢𝐜𝐢𝐭𝐚 𝐚𝐜𝐜𝐞𝐭𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧𝐝𝐢𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐚 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐞 𝐝𝐞𝐥 𝐫𝐞𝐨.

Estinzione del reato per condotte riparatorie, persona offesa e pubblico ministero possono opporsi?

L’istituto disciplinato dall’art. 162 ter c.p. prevede che, per i reati procedibili a querela soggetta a remissione, il giudice può dichiarare estinto il reato se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, l’imputato ha riparato integralmente il danno.

I presupposti per ottenere l’estinzione del reato sono due: 1) la riparazione integrale del danno; 2) l’osservanza del limite temporale.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 41899/2024, Sez. V, ha ribadito che i requisiti per l’applicazione dell’istituto sono due, non rilevando l’eventuale opposizione formulata dal P.M. o dal difensore della parte civile.

La decisione ha evidenziato che la disposizione in esame, a differenza di quanto previsto dall’art. 469 c.p.p., non prevede la facoltà in capo al PM e all’imputato di opporsi.


Pertanto, il giudice potrà dichiarare l’estinzione del reato procedibile a querela nell’ipotesi in cui il risarcimento avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e sia integrale, senza che PM e difensore della parte civile possano opporsi.

Giova, infine, rilevare che la disposizione in esame non può essere applicata al reato di stalking ex art. 612 bis c.p., espressamente escluso dall’ultimo comma dell’art. 162 ter c.p.