La misura cautelare può essere aggravata al soggetto che sui social segue i parenti della vittima?

Il protagonista della vicenda giudiziaria è un uomo accusato di omicidio preterintenzionale che, durante il periodo di sottoposizione alla misura cautelare degli arresti domiciliari con il divieto di comunicazione con persone diverse dai conviventi, veniva sorpreso a seguire sui social i prossimi congiunti della vittima.

Il GIP presso il Tribunale di Messina disponeva l’aggravamento della misura, applicando quella inframuraria, atteso il pericolo di reiterazione della condotta.

A seguito del rigetto dell’appello proposto innanzi al Tribunale di Messina l’imputato adiva la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando che il pericolo di reiterazione era puramente astratto, non potendo discendere soltanto dalla gravità del reato in contestazione.


Vediamo i motivi della decisione.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, evidenziando che il comportamento “intrusivo” del ricorrente può essere agevolmente neutralizzato, bloccando sui social la persona non gradita.

La decisione, inoltre, ha escluso che il pericolo di reiterazione possa desumersi dal titolo di reato, in assenza di ulteriori circostanze indicative della sussistenza della possibilità della commissione di analogo delitto, ritenendo pertanto adeguata la misura degli arresti domiciliari.

Nel caso in esame, le indagini non hanno dimostrato che l’uomo, sottoposto alla misura degli arresti domiciliari all’interno di un’abitazione distante dal luogo di residenza dei parenti della vittima, abbia posto in essere ulteriori comportamenti rispetto al mero utilizzo del social.

Il rapporto tra il reato di ricettazione e quello di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti

Il crescente fenomeno dell’introduzione abusiva di apparecchi telefonici all’interno degli istituti penitenziari ha determinato l’inserimento all’interno del Codice Penale, con l’ art. 9 del D. L. n. 130/2020 (Decreto Sicurezza Bis), dell’art. 391 ter, che sanziona il reato di accesso indebito a dispositivi idonei alla comunicazione da parte di soggetti detenuti.

Il co. 3 sanziona la condotta del detenuto che indebitamente riceve o utilizza un apparecchio telefonico o altro dispositivo idoneo ad effettuare comunicazioni.

La pena prevista per la condotta suindicata è compresa tra uno e quattro anni di reclusione.

Il co. 3 dell’art. 391 ter c.p. contiene una clausola di riserva, prevedendo che la disposizione si applichi salvo che la condotta integri una fattispecie di reato più grave.

La vicende giudiziaria vede protagonista un detenuto sorpreso con un apparecchio telefonico introdotto abusivamente all’interno della struttura penitenziaria.

A seguito della chiusura delle indagini veniva contestato al detenuto il reato di ricettazione ex art. 648 c.p.

Contro la sentenza di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, contestando la qualificazione giuridicadel fatto che doveva essere inquadrato nell’ipotesi meno grave ex art. 391 ter c.p.

La Suprema Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 4189/2025, ha rigettato il ricorso, ritenendo corretta la qualificazione giuridica operata con la decisione di primo grado e, al contempo, rilevando che l’apparecchio cellulare costituisce una cosa proveniente dal reato ex art. 391 ter c.p.

Ha rilevato, inoltre, che non è stata fornita dalla difesa la prova di un accordo tra il detenuto e il soggetto che ha consegnato l’apparecchio, che avrebbe escluso la configurabilità del reato di ricettazione in luogo di quello previsto dall’art. 391 ter c.p.

La Corte ha ricordato, infine, che la clausola di sussidiarietà inserita nel co 3 della disposizione in esame legittima la qualificazione operata da parte del Giudice di Primo Grado.