Illegittimo conseguimento di ratei di pensione: l’imputato risponde di indebita percezione di erogazioni pubbliche o appropriazione indebita?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” e decisa dalla Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10935/2025, ha consentito di vagliare il tema della qualificazione giuridica della condotta di appropriazione dei ratei di pensione, commessa dopo la morte del beneficiario.

L’imputato, dopo la morte del beneficiario, aveva percepito indebitamente dall’I.N.P.S. 247 ratei di pensione per un importo di circa 99.000,00, prima che l’Ente scoprisse l’illegittimo accreditamento.

Con sentenza confermata dalla Corte di appello di Catanzaro l’imputato è stato condannato per il reato ex art. 316 ter c.p., che sanziona il conseguimento indebito di erogazioni pubbliche ottenute con particolari modalità dell’azione, mediante “utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere” o con “omissioni di informazioni dovute”.

Ne consegue che la condotta ascrivibile all’imputato può essere attiva o omissiva.

L’inerzia o il silenzio possono integrare l’elemento oggettivo del reato de quo a condizione che siano “antidoverosi”, cioè che corrispondano all’omesso adempimento di un obbligo di comunicazione e che ad essi si correli l’erogazione non dovuta.

ll reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316 ter c.p.) differisce da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) per la mancanza dell’elemento dell’induzione in errore, che può anche desumersi dal falso documentale allorché lo stesso, per le modalità di presentazione o per altre caratteristiche, sia di per sé idoneo a trarre in errore l’autorità.

Contro la decisione, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, sollevando differenti motivi di censura.

In particolare, con il ricorso è stata contestata la qualificazione giuridica del reato, ritenendo che la condotta potesse integrare il diverso reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., stante l’assenza di un obbligo giuridico di comunicare il decesso da parte dei prossimi congiunti del beneficiario.

Sul punto, occorre rilevare che l’art. 72 del D.P.R. n. 396/2000 prevede l’obbligo di comunicare la morte di una qualunque persona, non oltre le ventiquattro ore dal decesso, all’ufficiale dello stato civile del luogo dove questa è avvenuta o, nel caso in cui tale luogo si ignori, del luogo dove il cadavere è stato deposto, a carico dei “congiunti” o della “persona convivente con il defunto” (o di un loro delegato) o – in mancanza – della persona “informata” del decesso ovvero, in caso di morte in ospedale, casa di cura o di riposo, collegio, istituto o qualsiasi altro stabilimento, in capo al direttore o a chi sia stato a ciò delegato.

Pertanto, non può ritenersi incombente sui congiunti o, comunque, sulle persone informate del decesso (e, quindi, su colui che è delegato alla riscossione della pensione) l’obbligo di comunicazione di decesso all’INPS, tenuto conto che siffatto obbligo non è imposto ai predetti in relazione al trattamento pensionistico erogato e spettando ad essi unicamente la comunicazione del decesso del congiunto al Comune di appartenenza.

In ragione di tali considerazioni, la condotta contestata non può integrare il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter c.p., potendo, semmai, ravvisarsi gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro.

L’impiegato postale che sottrae il corrispettivo del servizio in contrassegno risponde di peculato?

Il protagonista della vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” è un impiegato postale, con mansioni di responsabile del centro primario di distribuzione, accusato del reato di peculato ex art. 314 c.p. per aver sottratto € 570,00 di incassi per spedizioni con contrassegno.

Il reato di peculato sanziona la condotta di appropriazione di denaro o di una cosa mobile altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio.

Il presupposto è il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile.

La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di condanna di primo grado, rigettando la tesi difensiva che sosteneva l’insussistenza dei presupposti della fattispecie incriminatrice disciplinata dall’art. 314 c.p.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello evidenziando che la condotta poteva integrare gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., in quanto il servizio svolto non aveva natura pubblica e, inoltre, risultava assente in capo all’imputato la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Il reato ex art. 646 c.p. può essere definito una forma di appropriazione non qualificata in quanto l’autore della condotta non deve rivestire alcuna qualifica.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 41788/2024 – Sez. VI, ha riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita, annullando senza rinvio la decisione perché il reato risultava estinto per prescrizione.

Vediamo insieme le motivazione della pronuncia.

In primis, occorre rilevare che il servizio in contrassegno (pagamento al corriere alla consegna del pacco) non è un servizio svolto da Poste in via esclusiva, bensì operato in regime di concorrenza sul mercato.

Pertanto, poiché si tratta di un’attività svolta liberamente sul mercato, da più soggetti, in regime di concorrenza, non è inquadrabile tra i servizi pubblici.

Inoltre, deve rilevarsi che l’imputato preposto all’interno della struttura postale all’annotazione delle somme ricevute, non svolge un’attività riconducibile alla qualifica di pubblico ufficiale in quanto non ha poteri autoritativi né di natura certificativa.

Inoltre, non è riconducibile a quella di incaricato di pubblico servizio dal momento che si tratta di un’attività materiale in esecuzione di ordini di servizio o di prescrizioni impartite da superiori gerarchici.