Appropriazione indebita e divisione ereditaria

La vicenda scelta per la rubrica Dialoghi Penali esplora la configurabilità del reato di appropriazione indebita nel contesto di un giudizio di divisione ereditaria connotato da un’accesa conflittualità tra i due eredi.

Il caso:

Un giorno Tizio scopre che la germana Caia aveva venduto un quadro oggetto del giudizio di divisione, riconoscendo il bene su un sito di un antiquariato.

Immediatamente presenta una denuncia/querela nei confronti di Caia contestando il reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p. , in quanto quest’ultima aveva la disponibilità esclusiva del bene collocato all’interno dell’abitazione familiare, anch’essa oggetto del giudizio di divisione ereditaria, ove aveva continuato ad abitare.

A seguito di attività investigative, viene appurato che Caia aveva dichiarato all’acquirente, nell’atto di cessione, di essere la proprietaria esclusiva del quadro.

Dalla vendita aveva incassato la somma di € 400,00.

Il PM, valorizzando il valore contenuto del bene compravenduto e l’assenza di precedenti penali a carico dell’indagata, formula una richiesta di archiviazione per tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.

Caia, mia assistita, ha deciso di proporre opposizione alla richiesta suddetta.

Nello specifico, Tizio aveva omesso di riferire nell’atto di denuncia/querela che in data antecedente alla vendita si era appropriato della somma di € 3.000,00, presente su un conto cointestato con la germana.

Nell specifico, aveva chiesto all’Istituto di Credito ove era stato acceso il conto cointestato di emettere un assegno circolare in suo favore pari all’importo presente sul conto corrente di oltre € 6.000,00 e, quindi sottraendo illegittimamente alla sorella anche la quota di sua spettanza.

In ragione di tale comportamento, Caia aveva ottenuto un 𝗱𝗲𝗰𝗿𝗲𝘁𝗼 𝗶𝗻𝗴𝗶𝘂𝗻𝘁𝗶𝘃𝗼 per l’importo di € 3.000,00 dichiarato esecutivo, in quanto non opposto nel termine di legge.

La difesa:

Nell’atto di opposizione venivano proposti due motivi di archiviazione:

  • La causa di non punibilità dello 𝗶𝘂𝘀 𝗿𝗲𝘁𝗲𝗻𝘁𝗶𝗼𝗻𝗶𝘀 che presuppone un credito certo, liquido ed esigibile;
  • La carenza dell’𝗲𝗹𝗲𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝘀𝗼𝗴𝗴𝗲𝘁𝘁𝗶𝘃𝗼 del reato , in ragione sia del credito formatosi in data antecedente rispetto alla vendita, sia dell’importo dell’appropriazione pari ad € 200,00 di gran lunga inferiore rispetto a quello presente sul conto corrente di € 3.000,00, sottratto alla germana.

La decisione:

Il G.I.P. ha accolto l’opposizione spiegata, emettendo ordinanza di archiviazione.

Il giudice ha evidenziato che dalla ricostruzione della vicenda non emerge la prova che la condotta posta in essere fosse sorretta dal fine di conseguire un ingiusto profitto.

Illegittimo conseguimento di ratei di pensione: l’imputato risponde di indebita percezione di erogazioni pubbliche o appropriazione indebita?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” e decisa dalla Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10935/2025, ha consentito di vagliare il tema della qualificazione giuridica della condotta di appropriazione dei ratei di pensione, commessa dopo la morte del beneficiario.

L’imputato, dopo la morte del beneficiario, aveva percepito indebitamente dall’I.N.P.S. 247 ratei di pensione per un importo di circa 99.000,00, prima che l’Ente scoprisse l’illegittimo accreditamento.

Con sentenza confermata dalla Corte di appello di Catanzaro l’imputato è stato condannato per il reato ex art. 316 ter c.p., che sanziona il conseguimento indebito di erogazioni pubbliche ottenute con particolari modalità dell’azione, mediante “utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere” o con “omissioni di informazioni dovute”.

Ne consegue che la condotta ascrivibile all’imputato può essere attiva o omissiva.

L’inerzia o il silenzio possono integrare l’elemento oggettivo del reato de quo a condizione che siano “antidoverosi”, cioè che corrispondano all’omesso adempimento di un obbligo di comunicazione e che ad essi si correli l’erogazione non dovuta.

ll reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316 ter c.p.) differisce da quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis c.p.) per la mancanza dell’elemento dell’induzione in errore, che può anche desumersi dal falso documentale allorché lo stesso, per le modalità di presentazione o per altre caratteristiche, sia di per sé idoneo a trarre in errore l’autorità.

Contro la decisione, l’imputato ha proposto ricorso per Cassazione, sollevando differenti motivi di censura.

In particolare, con il ricorso è stata contestata la qualificazione giuridica del reato, ritenendo che la condotta potesse integrare il diverso reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., stante l’assenza di un obbligo giuridico di comunicare il decesso da parte dei prossimi congiunti del beneficiario.

Sul punto, occorre rilevare che l’art. 72 del D.P.R. n. 396/2000 prevede l’obbligo di comunicare la morte di una qualunque persona, non oltre le ventiquattro ore dal decesso, all’ufficiale dello stato civile del luogo dove questa è avvenuta o, nel caso in cui tale luogo si ignori, del luogo dove il cadavere è stato deposto, a carico dei “congiunti” o della “persona convivente con il defunto” (o di un loro delegato) o – in mancanza – della persona “informata” del decesso ovvero, in caso di morte in ospedale, casa di cura o di riposo, collegio, istituto o qualsiasi altro stabilimento, in capo al direttore o a chi sia stato a ciò delegato.

Pertanto, non può ritenersi incombente sui congiunti o, comunque, sulle persone informate del decesso (e, quindi, su colui che è delegato alla riscossione della pensione) l’obbligo di comunicazione di decesso all’INPS, tenuto conto che siffatto obbligo non è imposto ai predetti in relazione al trattamento pensionistico erogato e spettando ad essi unicamente la comunicazione del decesso del congiunto al Comune di appartenenza.

In ragione di tali considerazioni, la condotta contestata non può integrare il reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche ex art. 316 ter c.p., potendo, semmai, ravvisarsi gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p.

Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte di Cassazione ha disposto l’annullamento della sentenza con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro.

L’impiegato postale che sottrae il corrispettivo del servizio in contrassegno risponde di peculato?

Il protagonista della vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” è un impiegato postale, con mansioni di responsabile del centro primario di distribuzione, accusato del reato di peculato ex art. 314 c.p. per aver sottratto € 570,00 di incassi per spedizioni con contrassegno.

Il reato di peculato sanziona la condotta di appropriazione di denaro o di una cosa mobile altrui da parte di un pubblico ufficiale o di un incaricato di un pubblico servizio.

Il presupposto è il possesso o la disponibilità del denaro o della cosa mobile.

La Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza di condanna di primo grado, rigettando la tesi difensiva che sosteneva l’insussistenza dei presupposti della fattispecie incriminatrice disciplinata dall’art. 314 c.p.

L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello evidenziando che la condotta poteva integrare gli estremi del reato di appropriazione indebita ex art. 646 c.p., in quanto il servizio svolto non aveva natura pubblica e, inoltre, risultava assente in capo all’imputato la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio.

Il reato ex art. 646 c.p. può essere definito una forma di appropriazione non qualificata in quanto l’autore della condotta non deve rivestire alcuna qualifica.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 41788/2024 – Sez. VI, ha riqualificato il fatto nel delitto di appropriazione indebita, annullando senza rinvio la decisione perché il reato risultava estinto per prescrizione.

Vediamo insieme le motivazione della pronuncia.

In primis, occorre rilevare che il servizio in contrassegno (pagamento al corriere alla consegna del pacco) non è un servizio svolto da Poste in via esclusiva, bensì operato in regime di concorrenza sul mercato.

Pertanto, poiché si tratta di un’attività svolta liberamente sul mercato, da più soggetti, in regime di concorrenza, non è inquadrabile tra i servizi pubblici.

Inoltre, deve rilevarsi che l’imputato preposto all’interno della struttura postale all’annotazione delle somme ricevute, non svolge un’attività riconducibile alla qualifica di pubblico ufficiale in quanto non ha poteri autoritativi né di natura certificativa.

Inoltre, non è riconducibile a quella di incaricato di pubblico servizio dal momento che si tratta di un’attività materiale in esecuzione di ordini di servizio o di prescrizioni impartite da superiori gerarchici.