Chi sono

Un avvocato penalista a Salerno…

Mi chiamo Fabio Torluccio, sono un avvocato, mio padre desiderava che lo fossi, ma quando, dopo la maturità, mi sono trovato a scegliere se iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza più di un dubbio mi ha assalito.

I cinque anni trascorsi sui libri e la lunga gavetta post-universitaria hanno forgiato il mio carattere. Pian piano, giorno dopo giorno, ho compreso che l’esercizio della professione non è un lavoro, è una missione. Porti con te ogni giorno i problemi dei clienti, i dubbi sull’esito di un processo e, soprattutto, accetti i tempi di una giustizia lenta, troppo lenta.

Se i problemi sono tanti, è anche vero che quando vinci e, nel mio caso specifico, quando ottieni un’assoluzione, senti che giustizia è stata fatta.

Sono un avvocato penalista a Salerno, un penalista semplificando, uno che non dorme la notte, che studia sempre, che cerca la soluzione a casi, apparentemente impossibili. Uno che il lunedì difende un proprio assistito a Napoli e il martedì entra in un’aula del Tribunale di Milano.

Sono un avvocato che corre, corre sempre, cercando di dare il massimo, garantendo ad ogni assistito un processo equo e giusto, uno che cerca di limitare i danni quando sa che c’è poco da fare.

Un avvocato non può che essere uno studioso, uno che divora i libri, uno pronto a ragionare, uno che cerca nelle fredde carte processuali la soluzione, anche quando non sembra esserci più la speranza.
Qualcuno mi ha detto che sono affidabile, qualcuno che sono furbo, qualcuno che sono cinico.

È vero, ogni sostantivo racconta qualcosa di me, in realtà sono uno che non si ferma mai, che fa quello che deve fino alla fine.

Se il diritto penale è la mia prima passione, ne coltivo un’altra da tempo. Sono un volontario, impegnato da sempre nell’ assistenza agli bisognosi e nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Questa seconda passione mi ha portato con un gruppo di amici a creare gli Specialisti del Non Profit, un team di esperti che svolge attività di informazione, formazione e assistenza nei confronti degli Enti del Terzo Settore.

Volevo presentarmi in modo classico, ma non fa parte di me.

Avvocato penalista Salerno

Aggressioni in famiglia: il discrimine tra il reato di stalking e quello di maltrattamenti.

La Suprema Corte di Cassazione con un recente arresto (Cass. Penale 32575/2022) è tornata sul rapporto tra il reato di maltrattamenti contro familiari e conviventi ex art. 572 c.p. e quello di stalking nella forma aggravata ex art. 612 bis co. 2 c.p.

Il caso riguardava un uomo ritenuto responsabile dei reati di cui agli artt. 572 co. 1 e 2, 582, 585, 576 e 612 cpv c.p. per avere, in plurime occasioni, anche dopo la sentenza di divorzio, posto in essere comportamenti violenti a danno dell’ex coniuge.

La Suprema Corte di Cassazione adita si è trovata a vagliare se le condotte aggressive potessero essere inquadrate nel reato di stalking nella forma aggravata, fattispecie connotata da un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quella di maltrattamenti contestata.

Per comprendere la pronuncia occorre, preliminarmente, esplorare le due fattispecie, evidenziandone gli elementi di comunanza e quelli che le differenziano.

La fattispecie codificata all’art. 572 c.p. sanziona una condotta abituale connotata da una pluralità di atti lesivi dell’integrità fisica e psichica del soggetto passivo che acquisiscono rilevanza per la loro reiterazione nel tempo. Il reato deve essere commesso all’interno di un contesto familiare, nell’ambito di un rapporto di convivenza e, infine, in quelle situazioni, come ad esempio la scuola o l’ambiente di lavoro che prevedono una relazione di assistenza e supporto.

Lo stalking o atti persecutori ex art. 612 bis c.p. sanziona comportamenti reiterati di minaccia e molestia che abbiano cagionato uno degli tre eventi previsti dal codice e in particolare: a) perdurante e grave stato di ansia o paura; b) fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata al medesimo da relazione affettiva; c) alterazione delle abitudini di vita.

La fattispecie di cui al secondo co. dell’art. 612 bis c.p. invocata dal ricorrente sanziona con una pena più grave rispetto a quella prevista dal primo co. (da anni 1 a anni 6 e mesi 6 di reclusione) le condotte di stalking commesse a danno del coniuge, anche separato o divorziato o da persona che è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.

Emerge, quindi, che la condotta dell’odierno ricorrente potrebbe integrare, in astratto, entrambi i reati, senza dimenticare però la clausola di sussidiarietà presente nel primo co. dell’ art. 612 bis c.p.

Tuttavia, la giurisprudenza, con diverse pronunce, ha ribadito che, dopo una pronuncia di divorzio, se non segue la ricomposizione della relazione, la condotta dovrà essere sussunta nel reato di stalking, ex art. 612 bis co. 2 c.p.

La cessazione del vincolo familiare ed affettivo o comunque della sua attualità temporale esclude la configurabilità del reato di maltrattamenti che, come detto, presuppone, la perpetrazione di atti violenti all’interno di un contesto familiare.

In forza di quanto esposto, la Suprema Corte di Cassazione ha riqualificato il reato in quello di atti persecutori, annullando la sentenza limitatamente al trattamento sanzionatorio con rinvio ad una diversa sezione della Corte di Appello.

Emissioni odorigene: lo stretto legame tra Testo Unico Ambientale e Codice Penale…

La pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 20204 del 21 Maggio 2021 contiene una precisa disamina della disciplina delle “emissioni odorigene” provocate, nel caso specifico, con la ricezione, il trattamento e la custodia di fanghi da depurazione.

La definizione di “emissioni odorigene” è rinvenibile all’art. 268 co.1 del d. lgs n. 152/2006 che indica come tali le emissioni convogliate o diffuse aventi effetti di natura odorigena.

L’art. 272 bis, in assenza di una disciplina statale, assegna un ruolo decisivo alle Regioni e alle singole autorizzazioni in quanto demanda loro la facoltà di prevedere misure per la prevenzione e limitazione delle emissioni odorigene degli stabilimenti.

La disposizione in esame richiama peraltro la nozione di autorizzazione rimandando, pertanto, all’autorizzazione per le emissioni in atmosfera di cui all’art. 269.

Ferme tali premesse occorre rintracciare nel Testo Unico Ambientale le disposizioni che sanzionano la violazione delle prescrizioni di natura odorigena.

In primis l’art. 279 co. 2 bis prevede che “chi viola le prescrizioni stabilite dall’autorizzazione, dagli allegati I, II, III o V alla Parte Quinta, dai piani e dai programmi o dalla normativa di cui all’articolo 271 o le prescrizioni altrimenti imposte dall’autorità competente è soggetto ad una sanzione amministrativa pecuniaria da 1.000 euro a 10.000 euro, alla cui irrogazione provvede l’autorità competente”.

Laddove, invece, le emissioni odorigene siano oggetto di specifiche prescrizioni imposte con l’AIA, dovrà farsi riferimento all’impianto sanzionatorio previsto dall’art. 29-quaterdecies co. 2 secondo che commina “la sanzione amministrativa pecuniaria da 1.500 euro a 15.000 euro nei confronti di colui che pur essendo in possesso dell’autorizzazione integrata ambientale non ne osserva le prescrizioni o quelle imposte dall’autorità competente“.

La prova di emissioni odorigene, secondo i più recenti arresti della Suprema Corte, può essere fornita sia mediante esami di laboratorio, sia attraverso le dichiarazioni di chi è costretto per la vicinanza all’impianto a respirare gli odori nauseabondi, purché le testimonianze siano scevre di valutazioni personali.

Le fattispecie disciplinate dal Testo Unico Ambientale potrebbero concorrere con la contravvenzione prevista dall’art. 674 c.p., in quanto differiscono sia per il bene tutelato, nelle prime l’ambiente, mentre in quest’ultima l’incolumità pubblica, sia perché dirette a sanzionare condotte differenti.

Difatti, l’art. 674 c.p. sanziona le condotte consistenti nel getto di cose o nel provocare emissioni di gas, vapori e fumi atti ad offendere o molestare le persone, mentre le fattispecie suindicate apprestano determinate cautele e impongono il rispetto delle prescrizioni e limiti indicati dalla legge e dagli atti abilitativi.

La disposizione prevista dal c.p. è costruita secondo lo schema del reato di pericolo e, pertanto, diretta a realizzare una tutela anticipata del bene giuridico, prevenendo esiti pericolosi o dannosi conseguenti al getto o al versamento di cose atte ad offendere.

La norma ha l’obiettivo di contemperare due contrapposti interessi: da un lato, quello dell’incolumità pubblica e, dall’altro, quello di natura economica, discendente dall’esercizio di un’attività produttiva.

Il criterio da seguire per verificare se le emissioni possano integrare l’ipotesi contravvenzionale è stato individuato in quello della tollerabilità delle stesse, che diventa di “stretta tollerabilità” se l’impianto non ha le necessarie autorizzazioni, mentre segue il criterio di “normale tollerabilità” se, diversamente, le predette sono presenti.

Intercettazioni: l’esegesi della definizione di privata dimora

L’interpretazione della definizione di “privata dimora” nell’ambito delle intercettazioni ambientali ex art. 266 c.p.p. è stata affrontata, di nuovo, dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 32010/2022.

L’occasione è originata dall’impugnazione di un’ordinanza di conferma della misura coercitiva degli arresti domiciliari da parte del Tribunale del Riesame di Napoli nei confronti di un magistrato salernitano, indagato per i reati di corruzione in atti giudiziari, induzione a dare o promettere utilità e rivelazione di segreto d’ufficio, commessi abusando della propria qualità di sostituto presso la Procura della Repubblica.

La prova regina impiegata per “incastrare” il sostituto procuratore consisteva in alcune l’intercettazioni ambientali, effettuate nel suo ufficio.

La difesa del magistrato adiva la Suprema Corte di Cassazione sostenendo l’inutilizzabilità delle intercettazioni in quanto effettuate all’interno dell’ufficio, luogo da considerarsi di privata dimora dal momento che sussistevano i tre elementi richiesti dalla giurisprudenza affinché lo stesso possa considerarsi tale e, in particolare: a) il luogo era adibito a manifestazioni della vita privata al riparo da intrusioni esterne; b) tra il luogo e la persona sussisteva un rapporto di durata apprezzabile e non connotato da mera occasionalità; c) l’inaccessibilità del luogo da parte di terzi in assenza del consenso del titolare.

Per comprendere meglio la questione occorre richiamare il co. 2 dell’art. 266 c.p.p. il quale prevede che nel caso di intercettazioni ambientali, “qualora queste avvengano nei luoghi indicati dall’articolo 614 c.p., l’intercettazione è consentita solo se vi è fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo l’attività criminosa”.

Giova rilevare che l’individuazione dell’esatta nozione di privata dimora richiamata dall’art. 614 c.p. ha acceso un forte dibattimento in giurisprudenza.

L’orientamento prevalente, oramai cristallizzato, ritiene che per privata dimora debba intendersi “il luogo adibito ad esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente, senza turbativa da parte di estranei, senza che peraltro ciò implichi che tutti i locali dai quali il possessore abbia diritto di escludere le persone a lui non gradite possano considerarsi luoghi di privata dimora, in quanto lo ius excludendi alios rilevante ex art. 614 c.p., non è fine a se stesso, ma serve a tutelare il diritto alla riservatezza, nello svolgimento di alcune manifestazioni della vita privata della persona, che l’art. 14 Cost., garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio”.

Nel caso in cui l’intercettazione ambientale venga operata in un luogo inquadrabile fra quelli di privata dimora occorrerà anche, ai fini dell’utilizzabilità della predetta, che si stia svolgendo un’attività criminosa.

La Corte nel rigettare il ricorso ha ritenuto l’ufficio del sostituto non inseribile tra i luoghi di privata dimora in ragione della possibilità di accesso allo stesso da parte di un numero rilevante di persone. La recente statuizione si è posta in continuità con un analogo precedente, che ha ritenuto utilizzabili le intercettazioni tra presenti eseguite in un ufficio comunale, nell’ambito di un’inchiesta che vedeva indagato il sindaco dell’Ente.

Cooperazione multidisciplinare tra medico di famiglia e endoscopista e responsabilità per colpa medica…

Il decesso di una paziente di 90 anni a causa di una perforazione dell’intestino durante una colonscopia, eseguita da un endoscopista e prescritta da un medico di famiglia, ci consente di affrontare un tema molto sentito nel campo della colpa medica.

Mi riferisco, senza giri di parole, alla cooperazione multidisciplinare tra professionisti che, in questo caso, sono stati chiamati a rispondere in concorso del reato di omicidio colposo per aver il primo prescritto un esame non soltanto invasivo, ma non adeguato ai sintomi della paziente e il secondo, l’endoscopista, per aver avallato in modo automatico la precedente valutazione.

Quest’ultimo, condannato in primo e secondo grado, adiva la Suprema Corte di Cassazione, sostenendo che, essendo stata già effettuata da un collega una valutazione circa la necessità dell’esame, non dovesse valutare nuovamente l’adeguatezza e il rapporto tra i rischi che per quella tipologia di paziente comportava l’esame che andava ad effettuare rispetto alla sintomatologia che lamentava, né fosse suo compito vagliare eventuali diverse e meno invasive opzioni diagnostiche.

La Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, rilevando che in tema di colpa professionale, laddove sussista un’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, anche non contestuale, ciascuno dei sanitari è tenuto ad operare un autonomo esame del rischio collegato alla procedura da svolgere.

L’endoscopista davanti alla prescrizione di un collega peraltro non specialista non poteva esimersi dall’effettuare un’autonoma valutazione, tale da indurlo a scegliere una procedura meno invasiva e adeguata ai sintomi riferiti dalla paziente che peraltro, come evidenziato, era in età avanzata.

Tale omissione costituisce una concausa dell’evento infausto e, per tale ragione, il ricorso dell’endoscopista non è stato accolto, con conferma integrale della pronuncia di condanna (Cfr. Cass. Penale n. 30051/2022).

Estradizione: il necessario contemperamento tra pretesa punitiva dello Stato richiedente e diritto di difesa dell’estradando.

L‘estradizione è una forma di cooperazione giudiziaria che consente la “consegna” di una persona da parte dello Stato in cui la stessa si trovi fisicamente, ad un altro Stato (c.d. richiedente), che abbia trasmesso la domanda per sottoporre tale soggetto, alternativamente al giudizio o alla esecuzione di una sentenza di condanna, o di altro provvedimento restrittivo della libertà.

Oggi affrontiamo una vicenda molto interessante che vede protagonisti 10 ex terroristi rossi, arrestati in Francia e non ancora estradati nel nostro paese.

In data 27 Aprile 2022, nell’ambito di una operazione soprannominata “Ombre rosse”, “sono stati arrestati a Parigi dieci italiani, riparati in Francia, per sottrarsi all’esecuzione di pesanti condanne per delitti risalenti ai cosiddetti “anni di piombo”. Tra loro, diversi per storie e responsabilità, alcuni personaggi noti come Giorgio Pietrostefani (già esponente di Lotta Continua, condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi), Raffaele Ventura (condannato per l’omicidio del brigadiere Antonio Custra durante una manifestazione a Milano nel maggio 1977), Roberta Cappelli, Marina Petrella e Sergio Tornaghi (già appartenenti alle Brigate rosse, condannati all’ergastolo, tra l’altro, per diversi omicidi)”.

La richiesta di consegna da parte dell’Italia degli arrestati, condannati nel nostro paese con sentenze oramai definitive, è stata rigettata dalla Corte di Appello di Parigi, organo competente a vagliare le istante di estradizione, in ragione di differenti argomentazioni.

In primis, la Corte di Appello di Parigi ha ritenuto che il processo in contumacia celebratosi in Italia, nei confronti degli arrestati, non abbia rispetto i principi del giusto processo, violando apertamente gli artt. 6 e 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.

Per comprendere meglio la violazione “contestata” all’Italia, occorre premettere che per processo in contumacia si intende il giudizio in cui, nonostante i tentativi diretti a garantire la partecipazione fisica dell’imputato, quest’ultimo abbia deciso volontariamente di non prendervi parte. Nel nostro ordinamento, una volta che l’autorità giudiziaria ha accertato che l’imputato sia venuto a conoscenza dell’instaurazione di un procedimento penale (es. notifica del decreto di citazione) a suo carico, non sussistono ostacoli alla celebrazione del processo.

L’imputato può nominare un difensore di fiducia o, laddove decida di non farlo, il magistrato designerà un difensore di ufficio, titolato ad esercitare le medesime facoltà del primo.

In ragione di quanto esposto, dal momento che ai condannati rifugiatisi in Francia è stata assicurata la conoscenza dell’instaurazione dei processi, e l’effettivo esercizio del diritto di difesa, mediante la designazione di un difensore di ufficio, alcuna violazione della Convenzione è ascrivibile al nostro paese.

Il secondo motivo di rigetto della richiesta di estradizione si compendia nel lungo lasso di tempo intercorso tra la pronuncia definitiva di condanna e l’istanza di consegna presentata dall’Italia che, secondo la Corte di Appello di Parigi, integrerebbe una sorte di rinuncia tacita alla pretesa punitiva e, al contempo, la piena integrazione degli ex terroristi all’interno del sistema francese, attraverso l’instaurazione di rapporti familiari stabili e lo svolgimento di attività lavorativa non occasionale.

Anche tale argomentazione appare superabile in quanto in precedenza e, precisamente negli anni 90 e poi nel 2000, la Corte di Appello di Parigini aveva accolto le richieste di estradizione nei confronti degli ex terroristi, ma poi non aveva posto in essere gli atti esecutivi di estradizione, da compiersi entro quattro mesi.

Se il primo round ha visto sconfitta l’Italia, l’ultima parola spetterà alla Corte di Cassazione francese, chiamata a pronunciarsi sul tempestivo ricorso presentato dalla procura generale di Parigi.

Il comproprietario dell’immobile risponde degli abusi edilizi commessi dall’altro proprietario?

La questione giuridica affrontata, di recente, dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 27199/2022 vede protagonisti due comproprietari di diversi immobili ad uso residenziale, chiamati a rispondere del reato di cui all’art. 44 lett. c) del D.P.R. n. 380/2001 per aver realizzato alcuni interventi non autorizzati all’interno di uno degli appartamenti di proprietà.

L’ art. 44 del D.P.R. n. 380/2001 prevede che, salvo che il fatto costituisca più grave reato e ferme le sanzioni amministrative, si applica:

a) l’ammenda fino a 10.329 euro per l’inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità esecutive previste dal presente titolo, in quanto applicabili, nonché dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dal permesso di costruire;

b) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 5.164 a 51.645 euro nei casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o assenza del permesso o di prosecuzione degli stessi nonostante l’ordine di sospensione;

c) l’arresto fino a due anni e l’ammenda da 15.493 a 51.645 euro nel caso di lottizzazione abusiva di terreni a scopo edilizio, come previsto dal primo comma dell’ art. 30. La stessa pena si applica anche nel caso di interventi edilizi nelle zone sottoposte a vincolo storico, artistico, archeologico, paesistico, ambientale, in variazione essenziale, in totale difformità o in assenza del permesso”.

Sia in primo grado che in appello i comproprietari, fratello e sorella, venivano ritenuti responsabili del reato ex art. 44 lett c.

La sorella, che chiameremo Carla, adiva la Suprema Corte di Cassazione sostenendo che la pronuncia di appello era censurabile in quanto non conteneva la prova di una partecipazione della predetta alla realizzazione degli interventi e/o opera abusive, avendo soltanto dimostrato la qualità di comproprietaria degli immobili. Inoltre, Carla, a sostegno della propria tesi, evidenziava che non aveva neanche la residenza nell’immobile in cui erano stati eseguiti gli interventi non assentiti.

La ricorrente richiamava alcune pronunce del Supremo Consesso secondo le quali il proprietario “estraneo” può essere ritenuto responsabile del reato edilizio, purché risulti un suo contributo soggettivo all’altrui abusiva edificazione da valutarsi secondo le regole generali sul concorso di persone nel reato, non essendo sufficiente la semplice connivenza. Il concorso nel reato, morale o materiale, deve assumere la forma di contributo alla realizzazione dell’ipotesi delittuosa, diversamente il comproprietario “estraneo” non potrà essere chiamato a rispondere del reato.

Tuttavia, dalle prove raccolte dall’accusa emergeva la presenza, al momento del sopralluogo operato dai Carabinieri, di Carla che, peraltro, secondo quanto riferito da un testimone aveva partecipato alla direzione di alcuni interventi minori.

Le risultanze emerse, pertanto, sconfessavano la tesi della ricorrente, inducendo il Collegio adito ad emettere una pronuncia di inammissibilità del ricorso.

Il farmacista che esegue test antigenici in una parafarmacia commette il reato di esercizio abusivo della professione?

Oggi vi racconto la vicenda di un farmacista accusato del reato di cui all’art. 348 c.p. per aver eseguito test antigenici per la diagnosi del Cov-Sars-2 all’interno della propria parafarmacia, in quanto la legge n. 178/2020 prevede che possono essere eseguiti presso farmacie aperte al pubblico, dotate di spazi idonei sotto il profilo igienico sanitario e atti a garantire la tutela della riservatezza.

Il reato contestato p. e p. dall’art. 348 c.p. sanziona l’esercizio abusivo di determinate professioni per le quali è richiesta un’abilitazione da parte dello Stato. L’obiettivo è quello di assicurare che determinate professioni vengano esercitate da chi è in possesso di specifiche qualità morali e culturali.

La contestazione elevata al farmacista, regolarmente iscritto all’albo, aveva portato anche al sequestro preventivo del locale, con evidenti danni economici per l’attività svolta al suo interno. A seguito dell’applicazione della misura cautelare avente natura reale (sequestro) il professionista decideva di ricorrere davanti alla Suprema Corte di Cassazione, ritenendo il provvedimento illegittimo.

Ebbene, non aveva torto!

La Suprema Corte di Cassazione, con la pronuncia n. 22434/2022, ha osservato che l’art. 348 c.p. è volto ad assicurare, come detto, la tutela di un interesse pubblico in relazione allo svolgimento di attività che possano dirsi esclusive o comunque qualificanti nell’ambito di una determinata professione. Senonché, nel caso dei testi antigenici è previsto dal legislatore che gli stessi possano essere effettuati da operatori sanitari o da altri soggetti reputati idonei dal Ministro della Salute, tra i quali sono inclusi i farmacisti.

Ed allora deve ritenersi per la Suprema Corte che l’attività non solo non possa dirsi preclusa ai farmacisti ma sia specificamente anche ad essi riferibile. A fronte di ciò, la disposizione dettata dall’art. 1 della L. n. 178/2020, non introduce una limitazione inerente allo svolgimento della professione in sé, ma contempla una disciplina che ha una duplice finalità, esulante dall’ambito delle garanzie specificamente riconducibili all’abilitazione e alla connessa all’iscrizione all’albo, cioè da un lato quella di assicurare le migliori condizioni di sicurezza e riservatezza sotto il profilo del contesto operativo e dall’altro quella di garantire determinati equilibri di tipo economico, con riguardo agli esborsi richiesti alla platea dei fruitori del servizio.

Reato di turbativa d’asta: risponde del reato chi non dichiara i precedenti penali?

Oggi affrontiamo un caso molto interessante per tutti coloro che partecipano a gare bandite dalla Pubblica Amministrazione.

L’imputato, un imprenditore, veniva accusato del reato di turbata libertà degli incanti disciplinato dall’art. 353 c.p. per aver turbato la gara a cui partecipava in due tempi: “prima nascondendo di essere gravato da precedenti penali mediante l’occultamento della riconducibilità a sé della società con il trasferirne la rappresentanza legale e le quote sociali ad un terzo; successivamente presentando, dopo che la società era stata esclusa dalla precedente gara con annullamento in autotutela della aggiudicazione, altra domanda di partecipazione con altro soggetto giuridico, di cui era consigliere e legale rappresentante, senza dichiarare i precedenti penali suoi e di altri componenti del consiglio di amministrazione e accordandosi con il presidente del consiglio per non fare comparire nella compagine societaria la società di cui era socia una donna, il cui precedente penale avrebbe impedito la partecipazione alla gara”.

Il reato, collocato nel capo dei delitti contro la pubblica amministrazione, punisce le condotte che con violenza o minaccia, doni, promesse o collusioni o altri mezzi fraudolenti impediscono o turbano la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private ovvero ne allontanano gli offerenti.

La nozione di “mezzi fraudolenti” ha destato i maggiori dubbi. Sul punto, la giurisprudenza ha evidenziato che può rientrare nella nozione suindicata ogni attività ingannevole che sia idonea ad alterare il regolare funzionamento di una gara.

Difatti, la turbativa di una gara sussiste se il comportamento dell’agente lede il principio della libera concorrenza che la norma incriminatrice intende tutelare sia nell’interesse dei partecipanti, nei quali si è creato l’affidamento della regolarità del procedimento, sia nell’interesse dell’amministrazione.

I giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto l’imputato colpevole del reato p. e p. dall’art. 353 c.p., tuttavia, nonostante la duplice pronuncia di condanna, il reo decideva di adire la Suprema Corte di Cassazione.

Ebbene, quest’ultima ribaltava il verdetto, pronunciando una sentenza di piena assoluzione. Nella pronuncia si chiarisce che il falso commesso non era idoneo ad alterare il regolare svolgimento della gara, atteso che la presenza o meno del requisito soggettivo (assenza di precedenti penali) incide soltanto sul diritto di partecipare alla gara, che costituisce una fase preliminare rispetto alla successiva deputata a valutare le offerte presentate.

La falsità commessa potrà integrare il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, ma non collocarsi nella categoria dei “mezzi fraudolenti”, in quanto il mendacio rileva esclusivamente per l’ammissione alla gara e non può produrre effetti sul regolare svolgimento della stessa. (Cfr. Cass. Penale n. 24772/2022)

Quando il conferimento di rifiuti non tracciabili integra un’ipotesi di reato?

La vicenda che oggi voglio raccontarvi vede protagonisti alcuni privati che, in plurime occasioni, avevano conferito ingenti quantitativi di rifiuti in un impianto di recupero, celando, secondo quanto emerso dalle indagini della Direzione Distrettuale Antimafia, un traffico illecito di rifiuti metallici.

La Procura, in considerazione degli esiti delle attività di indagine, contestava il reato di cui all’art. 260 del D. Lgs. n. 152/2006, riqualificato, con la pronuncia di appello, nella fattispecie prevista dall’art. 256 del Testo Unico Ambientale.

La Corte di Appello ha ritenuto che il conferimento di rifiuti non accompagnati dai relativi formulari, effettuato dai privati che erano anche gestori dell’ impianto di recupero, secondo quanto emerso in dibattimento, era operato evidentemente nell’esercizio di un’attività imprenditoriale e, pertanto, la condotta non poteva che integrare il reato previsto dal quarto co. dell’art. 256.

La disposizione prevista dall’art. 256 sanziona al primo co. chi “effettua attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescrizione, iscrizione o comunicazione…”; il quarto co. sanziona, invece, “…l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”.

I ricorrenti adivano la Suprema Corte di Cassazione che, tuttavia, respingendo la tesi difensiva, in forza della quale il conferimento era stato effettuato in qualità di privati, riteneva che la condotta per la quale gli imputati erano stati condannati era pacificamente consistita “nell’avere “gestito” e “preso in carico” conferimenti di materiale non tracciabili provenienti da soggetti svolgenti attività commerciale in conto proprio o di terzi, con la consapevolezza che le dichiarazioni presentate da questi ultimi erano finalizzate esclusivamente a eludere gli obblighi di documentazione e contenevano informazioni non veritiere” (Cfr. Cass. Penale n. 33420/2021).

La condotta realizzata, invero, costituisce una precisa “deviazione” dalle modalità di esercizio dell’attività di gestione previste dall’autorizzazione, sanzionata dal legislatore dal co. 4 dell’ art. 256.

Reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui: basta il “tag”​ per condannare il writer seriale?

Oggi voglio raccontarvi la vicenda di un writer seriale condannato per il reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui ex art. 639 c.p. per aver dipinto più volte immagini sui muri di alcuni palazzi.

Senza entrare nella diatriba insorta tra coloro che ritengono che i graffiti siano delle opere d’arte contemporanea e quelli che diversamente li considerano un atto vandalico, voglio illustrarvi le peculiarità del caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 93 del 2021.

Le condotte che il reato di cui all’art. 639 c.p. intende sanzionare non includono il danneggiamento, ma soltanto quei comportamenti che sporcano o insudiciano un bene mobile o immobile e, quindi, a pieno titolo, può ricomprendersi la condotta del writer che realizza un murale.

E’ rilevante comprendere la differenza tra il danneggiamento, da un lato, e il deturpamento o l’imbrattamento, dall’altro. Il primo produce una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa; il secondo produce solo un’alterazione temporanea e superficiale della res, il cui aspetto originario, quale che sia la spesa da affrontare, è comunque facilmente reintegrabile.

Passando all’analisi del reato, il primo comma dell’art. 639 c.p. sanziona la condotta perpetrata su cose mobili altrui con la comminazione di una multa. Il secondo comma sanziona la condotta commessa su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati l’autore del reato con la reclusione da uno a sei mesi. Infine, se i comportamenti illeciti ricadono su beni di interesse storico o artistico è prevista la pena della reclusione da tre mesi a un anno e una multa. Emerge, quindi, una gravità crescente della pena in relazione all’importanza dei beni oggetto di tutela.

Il giudice, nel caso di pronuncia di condanna, può disporre l’obbligo di ripristino e ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenere le spese o di rimborsare quelle a tal fine sostenute ovvero la prestazione di attività non retribuite a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla pena sospesa.

Nel nostro caso il writer veniva identificato attraverso il tag ovvero la firma che gli autori dei murales lasciano, il più delle volte, in un angolo dell’opera e, sulla base di tale unico elemento, veniva emessa nei suoi confronti pronuncia di condanna per il reato suindicato.

Ritenendo la pronuncia ingiusta, il reo, mediante il suo difensore, adiva la Suprema Corte di Cassazione evidenziando che l’assenza di video riprese sul luogo o di dichiarazioni testimoniali idonee a comprovare che fosse l’autore del graffito avrebbero dovuto indurre il giudice di appello ad emettere una sentenza di assoluzione.

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile in quanto la pubblica accusa aveva fornito la prova di un collegamento stabile tra il tag e l’autore del graffito, rinvenendo su facebook un profilo del reo che conteneva lo stesso tag e, poi, sul profilo della fidanzata era stata pubblicata la foto di un graffito in cui era presente la medesima firma.