Chi sono

Un avvocato penalista a Salerno…

Mi chiamo Fabio Torluccio, sono un avvocato, mio padre desiderava che lo fossi, ma quando, dopo la maturità, mi sono trovato a scegliere se iscrivermi alla facoltà di giurisprudenza più di un dubbio mi ha assalito.

I cinque anni trascorsi sui libri e la lunga gavetta post-universitaria hanno forgiato il mio carattere.

Pian piano, giorno dopo giorno, ho compreso che l’esercizio della professione non è un lavoro, è una missione.

Porti con te ogni giorno i problemi dei clienti, i dubbi sull’esito di un processo e, soprattutto, accetti i tempi di una giustizia lenta, troppo lenta.

Se i problemi sono tanti, è anche vero che quando vinci e, nel mio caso specifico, quando ottieni un’assoluzione, senti che giustizia è stata fatta.

Sono un avvocato penalista a Salerno, un penalista semplificando, uno che non dorme la notte, che studia sempre, che cerca la soluzione a casi, apparentemente impossibili.

Uno che il lunedì difende un proprio assistito a Napoli e il martedì entra in un’aula del Tribunale di Milano.

Sono un avvocato che corre, corre sempre, cercando di dare il massimo, garantendo ad ogni assistito un processo equo e giusto, uno che cerca di limitare i danni quando sa che c’è poco da fare.

Un avvocato non può che essere uno studioso, uno che divora i libri, uno pronto a ragionare, uno che cerca nelle fredde carte processuali la soluzione, anche quando non sembra esserci più la speranza.
Qualcuno mi ha detto che sono affidabile, qualcuno che sono furbo, qualcuno che sono cinico.

È vero, ogni sostantivo racconta qualcosa di me, in realtà sono uno che non si ferma mai, che fa quello che deve fino alla fine.

Se il diritto penale è la mia prima passione, ne coltivo un’altra da tempo. Sono un volontario, impegnato da sempre nell’ assistenza agli bisognosi e nella lotta per la salvaguardia dell’ambiente. Questa seconda passione mi ha portato con un gruppo di amici a creare gli Specialisti del Non Profit, un team di esperti che svolge attività di informazione, formazione e assistenza nei confronti degli Enti del Terzo Settore.

Volevo presentarmi in modo classico, ma non fa parte di me.

Avvocato penalista Salerno

Omesso mantenimento: il reato è escluso se un terzo si sostituisce nell’adempimento all’obbligato?

Il caso scelto per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema della responsabilità penale dipendente dalla mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento.

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione, che ha annullato con rinvio la pronuncia di condanna emessa dalla Corte di Appello, originava dalla contestazione del reato ex art. 570 co 2 c.p. elevata nei confronti di un papà per l’omesso versamento delle somme a titolo di mantenimento stabilite dal giudice in favore dell’ ex coniuge e del figlio minore.

La difesa dell’imputato, con il ricorso per Cassazione, sollevava tre motivi di doglianza:

1) Violazioni di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dello stato di bisogno in capo alla signora B.B. e al figlio minore;

2) Violazione di legge in relazione alla ritenuta capacità da parte dell’imputato di far fronte agli obblighi posti a suo carico con provvedimento dell’autorità giudiziaria;

3) Violazione di legge in ordine alla ritenuta configurabilità del reato anche dopo la scrittura privata intervenuta tra le parti nel 2015, mediante la quale il padre dell’imputato volontariamente si impegnava a subentrare al figlio nell’adempimento dell’obbligo posto a suo carico.

Ebbene, la Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22276/2024, ha accolto il terzo motivo di gravame e disposto l’annullamento della pronuncia con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello.

Il Supremo Consesso nella decisione in esame ha evidenziato che il versamento delle somme effettuato dal padre dell’imputato, in ragione della sottoscrizione di una scrittura privata con la quale il primo si è impegnato a corrispondere le somme stabilite dal provvedimento del giudice, fa venir meno l’inadempimento, presupposto necessario per la configurabilità del reato.

Quando il taglio delle orecchie integra il reato di maltrattamento di animali?

Il caso scelto dalla rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema dell’accertamento della responsabilità per il reato di maltrattamenti ex art. 544 ter c.p. in un caso di intervento di conchestomia (taglio delle orecchie) eseguito da un medico veterinario nei confronti di un cucciolo di razza American Bully.

La fattispecie penale in esame sanziona la condotta che “per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche“.

Dall’istruttoria dibattimentale emergeva che l’intervento di asportazione delle orecchie veniva effettuato in quanto l’animale aveva riportato, in precedenza, una lesione alla testa tale, secondo la difesa dell’imputato, da giustificare un intervento chirurgico di rimozione di entrambe le orecchie.

Il Tribunale, tuttavia, emetteva sentenza di condanna a carico del medico veterinario in quanto non era stato dimostrato che l’intervento di conchestomia fosse necessario per la tutela dell’animale ritenendo, di contro, che l’operazione chirurgica era stata eseguita soltanto per una finalità estetica.

L’imputato, non condividendo le motivazioni della pronuncia di condanna, a seguito della conferma della decisione da parte della Corte di Appello, proponeva ricorso per Cassazione, evidenziando che l’operazione chirurgica si era resa necessaria, da un lato, per il benessere dell’animale e, dall’altro, per salvaguardare il suo aspetto estetico.

La Corte con la pronuncia n. 14951/2024 ha dichiarato inammissibile il ricorso, osservando, in via preliminare, che l’Italia ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione degli animali da compagnia, la quale prevede che ” Gli interventi chirurgici destinati a modificare l’aspetto di un animale da compagnia, o finalizzati ad altri scopi non curativi debbono essere vietati, in particolare: a) il taglio della coda; b) il taglio delle orecchie; c) la recisione delle corde vocali; d) l’esportazione delle unghie e dei denti.

Le uniche eccezioni previste riguardano: a) se un veterinario considera un intervento non curativo necessario sia per ragioni di medicina veterinaria, sia nell’interesse di un determinato animale; b) per impedire la riproduzione”.

In ragione di quanto esposto, nel caso in esame, la difesa non ha provato che l’asportazione del primo orecchio, a seguito del morso del cane, fosse necessaria e non evitabile attraverso una cura e/o intervento chirurgico meno invasivo.

Rumore fastidioso cagionato dal ticchettio di tacchi dal piano superiore: è reato?

Il caso scelto all’interno della rubrica Dialoghi Penali vaglia un comportamento diffuso all’interno dei condomini italiani. Sovente accade che il condomino del piano inferiore lamenti rumori provenienti da coloro che abitano al piano superiore e, qualche volta, come nel caso deciso dalla Suprema Corte di Cassazione, il fastidio discende dal ticchettio dei tacchi delle scarpe.

I protagonisti della vicenda giudiziaria sono stati condannati in primo grado, con sentenza confermata in appello, per aver provocato delle emissioni rumorose, eccedenti la normale tollerabilità.

I giudici di merito hanno ritenuto integrato il reato (ipotesi contravvenzionale) disciplinato dall’art. 659 c.p., che sanziona la condotta di chi “mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici…”.

La statuizione di condanna ha formato oggetto di ricorso davanti alla Suprema Corte di Cassazione, in quanto, secondo i difensori degli imputati, non sarebbe stata fornita la prova della lesione dell’interesse al riposo o a svolgere le proprie occupazioni di una cerchia indeterminata di soggetti, così da arrecare turbamento alla pubblica quiete.

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2071/2024, ha annullato la pronuncia gravata assolvendo i ricorrenti, evidenziando che, ai fini della configurabilità del reato, risulta necessario l’accertamento sia dell’idoneità delle emissioni ad arrecare disturbo ad un gruppo più vasto di condomini residenti in appartamenti diversamente ubicati nell’edificio, sia della loro diffusività in concreto, tale da superare i limiti della normale tollerabilità di emissioni provenienti da immobili contigui.

Invero, nel caso in esame, l’istruttoria dibattimentale non ha dimostrato una lesione nei confronti di soggetti diversi dai denuncianti e, al contempo, non è stato operato un accertamento tecnico diretto ad appurare che le emissioni rumorose abbiano superato la normale tollerabilità.

Malversazione ai danni dello stato e finanziamento COVID

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi Penali” affronta il tema dell’impiego di somme conseguite mediante l’erogazione di un mutuo garantito dal Fondo di garanzia a favore delle piccole e medie imprese, finalizzato ad assicurare liquidità aziendale, per scopi soltanto apparentemente riconducibili all’attività professionale.

Il mutuatario veniva indagato per il reato ex art. 316 bis c.p. ed era destinatario di un provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, dell’intero importo erogato pari ad € 340.000,00 per aver impiegato € 320.000,00 per l’estinzione di un mutuo ipotecario della moglie ed € 20.000,00 per ripianare il proprio scoperto di conto corrente.

Il Tribunale del riesame aveva disposto l’annullamento della misura reale, accogliendo le censure sollevate dalla difesa che, da un lato, aveva evidenziato che alcuna distinzione sussiste tra il patrimonio destinato all’esercizio della professione e quello personale, atteso che l’indagato era un libero professionista che svolgeva la professione di dentista e, dall’altro, l’impiego delle somme, determinando un alleggerimento della posizione debitoria, favorivano l’attività lavorativa di quest’ultimo.

La decisione è stata impugnata davanti alla Suprema Corte di Cassazione che, con la pronuncia n. 14874/2024, ha accolto il gravame, disponendo l’annullamento dell’ordinanza con rinvio davanti al Tribunale, in funzione di giudice del riesame.

Nel caso in esame veniva erogato un mutuo con garanzia statale a favore di un soggetto, libero professionista, colpito da un calo di fatturato dovuto all’emergenza Covid-19.

Giova rilevare che il d.l. n. 23/2020stabilisce che lo strumento della garanzia statale è posto al “fine di assicurare la necessaria liquidità alle imprese con sede in Italia, colpite dall’epidemia; la finalità della garanzia è stata genericamente riferita all’esigenza di garantire liquidità ai soggetti che avevano subito perdite di fatturato a causa del Covid-19; l’art. 1, lett. n) fornisce anche indicazioni in ordine alla finalità specifica della misura di sostegno, precisando che il finanziamento deve essere destinato a sostenere costi del personale, canoni di locazione o di affitto di ramo d’azienda, investimenti o capitale circolante impiegati in stabilimenti produttivi e attività imprenditoriali che siano localizzati in Italia.

La disciplina dettata dalla d.l. n. 23 del 2020 deve essere letta congiuntamente a quella che regolamenta l’accesso alla garanzia prestata dal Fondo per le PMI.

La garanzia prestata dal Fondo per le PMI, in quanto diretta espressamente a facilitare l’accesso delle piccole e medie imprese al credito, è per sua natura funzionale all’ottenimento di finanziamenti relativi allo svolgimento dell’attività di impresa. L’estensione dell’accesso alla garanzia del Fondo per le PMI anche a soggetti che non svolgono attività imprenditoriale, bensì professionale, non muta la necessaria destinazione del finanziamento garantito a far fronte alle esigenze dell’attività produttiva, posto che è in favore di quest’ultima che si prevede l’agevolazione.

Il finanziamento in esame, pur essendo concesso in favore del beneficiario sulla base di un contratto di diritto privato, è inserito in una cogente disciplina pubblica, in quanto è lo stesso legislatore a qualificare espressamente l’operazione di finanziamento agevolato, realizzata mediante l’intervento del Fondo centrale di garanzia PMI, come una forma di intervento pubblico nell’economia vincolata alla realizzazione dello scopo di sostegno per le imprese in crisi di liquidità per effetto della pandemia

In ragione di quanto esposto, l’ordinanza gravata è censurabile nella parte in cui ha affermato che il mutuo era stato erogato senza l’indicazione di una specifica finalità, bensì per una generica esigenza di sostegno alla liquidità aziendale. Invero, per le ragioni desunte dall’esame della normativa di riferimento, pare corretto affermare che pur a fronte dell’ampiezza della finalità della garanzia, essendo diretta a consentire il recupero della liquidità venuta meno per effetto dei mancati introiti nel periodo emergenziale, non può per ciò solo ritenersi che la destinazione delle somme mutuate fosse irrilevante o, comunque, non circoscritta all’attività professionale.

Deve ritenersi, invece, che il finanziamento ottenuto doveva essere necessariamente finalizzato all’attività professionale, nozione omnicomprensiva nella quale si possono ricondurre una molteplicità di impieghi tutti compatibili con il fine sotteso all’ottenimento del beneficio.

Censurabile è anche l’affermazione relativa alla confusione del patrimonio personale con quello patrimoniale.

L’assenza di un autonomo centro di imputazione giuridica comporta essenzialmente che il libero professionista risponde delle obbligazioni assunte con tutto il suo patrimonio, ma ciò non impedisce affatto di operare una distinzione tra beni e spese destinate all’attività professionale, piuttosto che alle esigenze personali. Quanto detto comporta che l’affermazione conclusiva del Tribunale del riesame, secondo cui il mutuo concesso per sostegno alla liquidità sarebbe stato utilizzato per estinguere debiti propri che gravavano sul professionista, non è corretta, in quanto il sostegno alla liquidità era riferito alle esigenze dell’attività professionale.

Vendita di vino adulterato, è configurabile il reato ex art. 516 c.p.?

La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi penali” affronta il complesso tema e il correlato inquadramento normativo della vendita o messa in commercio di sostanze alimentari adulterate soltanto apparentemente genuine.

A seguito di una complessa attività investigativa veniva individuata dagli inquirenti un’ organizzazione criminale che acquistava vino di scarsa qualità, aggiungeva a questo alcool per aumentarne la gradazione, lo imbottigliava e lo metteva in vendita in modo tale da farlo apparire di pregio, falsificando le fascette, le relative indicazioni geografiche e le denominazioni di origine, i relativi marchi e il contrassegno ministeriale previsto per i vini DOC e DOCG.

In primo grado, il Tribunale recepiva in toto quanto prospettato dalla P.A., emettendo sentenza di condanna per differenti ipotesi di reato, pronuncia confermata in sede di appello.

La questione affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 13767/2024 è di particolare interesse in quanto vaglia la configurabilità del reato di cui all’art. 516 c.p.

La disposizione in esame sanziona con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino ad € 1.032,00 la condotta di messa in vendita o in commercio di sostanze alimentari soltanto apparentemente genuine.

Tra i differenti motivi di censura sollevati con il ricorso per cassazione da uno degli imputati, veniva contestata l’applicabilità della norma penale ex art. 516 c.p. per il rapporto di specialità esistente tra questa e l’art. 33, co. 2, della l. n. 82 del 2006.

La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il motivo formulato dalla difesa dell’imputato, rilevando che il secondo co. del citato art. 33, sanziona la condotta di chi, nella fase della vinificazione o della successiva manipolazione del prodotto, “impiega in tutto o in parte prodotti non consentiti, quali alcol, zuccheri o materie zuccherine o fermentate diverse da quelle provenienti dall’uva fresca anche leggermente appassita”.

La condotta descritta dall’art. 516 cod. pen., invece, esula da ogni attività di adulterazione del prodotto (in sé considerata) e attiene alla sola (successiva) fase della commercializzazione.

Si tratta, pertanto, di due fattispecie differenti, che hanno in comune solo l’oggetto materiale del reato (il vino adulterato, quale sostanza alimentare non genuina), ma che differiscono radicalmente nella descrizione della condotta: l’una afferente alla pregressa fase della adulterazione e, l’altra, a quella successiva della commercializzazione.

In questi termini, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, alcun rapporto di specialità può prospettarsi tra le due norme.

Campi da padel: SCIA o permesso a costruire?

Questa sera la tematica esaminata all’interno della rubrica “Dialoghi penali” è di stretta attualità, in quanto affronta l’annosa questione della necessità o meno del rilascio del permesso a costruire nel caso di realizzazione di campi da padel in riconversione di campi da tennis preesistenti su un terreno con destinazione d’uso “verde agricolo”.

La vicenda origina dalla pronuncia di rigetto del Tribunale di Palermo di un’istanza di dissequestro avanzata dall’indagato, accusato del reato ex art. 44 del D.P.R. n. 380/2001, avverso il decreto di sequestro preventivo di due campi di padel.

L’ordinanza di rigetto, nella sostanza, ha affermato che la S.C.I.A. rilasciata all’indagato non fosse titolo edilizio legittimante la realizzazione dell’intervento di riconversione, essendo necessario di contro il rilascio di un permesso a costruire.

Contro la decisione, l’indagato ha proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che l’intervento di riconversione in esame rientrasse tra quelli di edilizia “semplice” o “leggera” per i quali è richiesta la presentazione di una SCIA.

La Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 11999/2024 ha preliminarmente osservato che, ai sensi dell’art. 3, co. 1, lettera d), del T.U. dell’edilizia, si configurano come interventi di ristrutturazione edilizia quelli volti a trasformare gli organismi edilizi per mezzo di un insieme di opere che possono portare ad un organismo diverso (tutto o in parte) da quello precedente.

All’interno della macrocategoria occorre distinguere gli interventi di ristrutturazione che sono subordinati al rilascio di permesso a costruire che, secondo quanto riportato all’art. 10 co 1 lett. c), sono quelli che portano ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, mentre gli altri sono considerati di edilizia “semplice” o “leggera” e richiedono la presentazione di una S.C.I.A.

Passando all’esame dell’intervento di riconversione dei campi da tennis in capi da padel, la Corte ha osservato che la realizzazione di quest’ultimo costituisce intervento che, per le sue caratteristiche complessive, connotate per l’installazione su apposita superficie, funzionale alla peculiare attività sportiva, di carpenteria e lastre di vetro perimetrali, incide sul territorio in termini di modifica del medesimo, e come tale rientra nel novero degli ” interventi di nuova costruzione” di cui all’art. 3, lett. e), D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

Deve rilevarsi che i campi di padel si differenziano dai campi da tennis e da calcio in quanto, mentre in questi ultimi occorre “un mero movimento terra, senza mutare le caratteristiche originarie di permeabilità del suolo, per la realizzazione dei campi di padel è necessaria la realizzazione di un massetto di cemento ove allocare il tappeto in fibra sintetica e la posa in opera delle barriere in vetro temperato”.

Pertanto, la realizzazione di un campo di padel, così come la conversione di un campo da tennis in un campo da padel, costituisce una “nuova costruzione“, per la cui realizzazione è necessario il permesso di costruire.

La realizzazione di tramezzature non autorizzate integra il reato ex art. 44 del D.P.R. 380/2001?

La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 14964/2023 muove dalla contestazione del reato ex art. 44 co. 1 lett. b) del D.P.R. n. 308/2001, elevata nei confronti di una cittadina extracomunitaria per aver realizzato una tramezzatura non autorizzata all’interno dell’immobile di proprietà, con l’obiettivo di ricavarne più stanze.

Il tramezzo è un’infrastruttura edilizia costituita da una parete verticale che ha la funzione di suddividere in vani gli spazi interni delimitati dai muri perimetrali di un edificio.

Il giudice di Prime Cure emetteva sentenza di condanna per il reato edilizio di nei confronti dell’imputata, rilevando che la realizzazione di una tramezzatura richiede il previo rilascio di un provvedimento autorizzativo (permesso a costruire), mai ottenuto dal reo.

L’imputata non condividendo le motivazioni della sentenza di condanna adiva la Suprema Corte di Cassazione.

Con i motivi di ricorso evidenziava che, a seguito seguito delle modifiche apportate dal D.L. n. 133 del 2014, art. 17 co. 1 lett. b), n. 1 e 2, conv. in L. n. 164 del 2014, deve ritenersi ampliata la categoria degli interventi di manutenzione straordinaria, comprensiva anche del frazionamento o accorpamento di unità immobiliari con esecuzione di opere, anche se comportanti una variazione di superficie o del carico urbanistico, per i quali, ove rimangano immutate la volumetria complessiva e la originaria destinazione d’uso, non è più necessario il rilascio di permesso a costruire.

Pertanto, il frazionamento dell’unità immobiliare deve ritenersi un intervento di manutenzione straordinaria ai sensi del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. b), soggetto unicamente alla S.C.I.A..

In assenza di quest’ultima, dunque, non possono applicarsi le sanzioni penali di cui all’art. 44, stante il disposto di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 37, ult. comma, e 44, co. 2-bis, che presuppongono un mutamento della volumetria complessiva, ovvero una modifica della destinazione d’uso, anche soltanto mediante opere interne.

In ragione di quanto esposto, la Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 14964/2023 ha accolto il ricorso dell’imputata emettendo una sentenza assolutoria, in quanto il frazionamento operato mediante il tramezzo è inquadrabile all’interno degli interventi di manutenzione straordinaria che non richiedono più il rilascio di permesso a costruire.

Estinzione del reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di stupefacenti, chi applica la sanzione accessoria?

La nuova storia della rubrica dialoghi penali racconta la vicenda di un imputato tratto a giudizio per il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti ex art. 171 co. 1 e 1 bis del D.Lgs. n. 285/1992.

L’accusato, in ragione delle poche possibilità di ottenere una pronuncia di assoluzione, decideva di richiedere la sospensione del giudizio con messa alla prova ex art. 168 bis e ss. c.p.

L’istituto assicura all’imputato l’estinzione del reato nell’ipotesi in cui presti per un tempo determinato dal giudice un lavoro di pubblica utilità e, al contempo, si adopri per eliminare le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.

Nel caso in esame, l’imputato, regolarmente ammesso alla messa alla prova, ottemperava al programma redatto dall’UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna), incorporato nel provvedimento del giudice che, al termine del periodo fissato, emetteva sentenza di estinzione del reato ex art. 168 ter c.p., irrogando, tuttavia, la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida.

L’imputato, non ritenendo legittima la pena accessoria applicata, adiva la Suprema Corte di Cassazione, evidenziando che, in assenza di una pronuncia che abbia accertato la responsabilità penale, non può essere comminata la sanzione amministrativa accessoria, che resta di esclusiva competenza del Prefetto.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 17178/2023 ha accolto il ricorso e disposto l’eliminazione della sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida, con contestuale trasmissione della sentenza al Prefetto.

La responsabilità penale del tecnico abilitato nella redazione del certificato finale di collaudo

La vicenda giudiziaria affronta il tema della responsabilità penale del tecnico che si trova a redigere il certificato finale di collaudo allegato alla segnalazione di inizio attività, non verificando se il titolo abilitativo sia o meno legittimo.

Il caso deciso dal Tribunale di Salerno vedeva imputati due direttori dei lavori, chiamati a difendersi dall’accusa di falso ideologico in certificati ex art. 481c.p.

Il giudice di primo grado, all’esito dell’istruttoria, ha emesso una sentenza di condanna nei confronti di due direttori di lavori, in quanto avevano attestato nella certificazione di collaudo finale che le opere realizzate erano conformi ai tipi progettuali presentati con la dichiarazione di inizio attività.

In secondo grado, la Corte di Appello di Salerno dichiarava la prescrizione del reato ex art. 481 c.p., confermando per il resto le statuizioni civili.

Gli imputati adivano la Suprema Corte di Cassazione che, con la pronuncia n. 43299/2023, ha rigettato i ricorsi.

La Corte ha evidenziato che “le false attestazioni contenute nella relazione di accompagnamento alla dichiarazione di inizio di attività edilizia (DIA) integrano il reato di falsità ideologica ex art. 481 c.p., in quanto detta relazione ha natura di certificato in ordine alla descrizione dello stato dei luoghi, alla ricognizione degli eventuali vincoli esistenti sull’area o sull’immobile interessati dall’intervento, alla rappresentazione delle opere che si intende realizzare e all’attestazione della loro conformità agli strumenti urbanistici ed al regolamento edilizio”.

Giova rilevare che, ai sensi dell’art. 23 co. 7 del D.P.R. n. 380/2001, il progettista o il tecnico abilitato, nel redigere il certificato finale di collaudo, devono solo attestare che le opere realizzate sono conformi al progetto allegato alla segnalazione di inizio di attività, senza verificare se il titolo abilitativo rilasciato sia o meno legittimo.

Il tecnico, come emerge dalla norme di settore, che redige il certificato finale di collaudo, che può essere anche un soggetto diverso dal progettista, non deve spingersi a verificare la regolarità del procedimento amministrativo conclusosi con il titolo edilizio.

Tuttavia, nel caso in esame, dall’istruttoria dibattimentale, emergeva che alcune opere realizzate risultavano diverse da quelle assentite sulla base della DIA rilasciata e, pertanto, il reato in contestazione risultava pacificamente integrato in relazione alle opere eseguite in assenza di un provvedimento autorizzativo.

L’illegittimità costituzionale del divieto di prevalenza della circostanza ex art. 74 co. 7 del T.U. Stup. sulla circostanza ex art. 99 co. 4 c.p.

La Corte Costituzione con la pronuncia n. 201/2023 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 della Cost., dell’art. 69 co. 4 c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante della collaborazione ex art. 74 co. 7 del D.P.R. n. 309/2009 sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata ex art. 99 co. 4 c.p.

Occorre premettere che le circostanze attenuanti e le circostanze aggravanti sono elementi accidentali del reato, che non influiscono sull’esistenza dello stesso, già perfetto in tutti i suoi elementi strutturali, incidendo, invece, sulla pena principale dal punto di vista quantitativo o qualitativo.

Le circostanze, nella sostanza, hanno la funzione di consentire la modulazione del trattamento sanzionatorio in proporzione al fatto concretamente commesso.

La questione di illegittimità costituzionale con riferimento al divieto di prevalenza previsto dall’art. 69 co. 4 c.p. è stata sollevata dal G.U.P. del Tribunale Ordinario di Napoli chiamato a pronunciarsi, in sede di giudizio abbreviato, sulla responsabilità di E. D’A., G. G., C. N. ed E. T., imputati, unitamente ad altri soggetti, già giudicati separatamente, del delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti di cui all’art. 74, commi 1 e 2, t.u. Stup.

Giova rilevare che G. G., C. N. ed E. T., dopo la commissione dei reati suindicati, sono divenuti collaboratori di giustizia, rilasciando dichiarazioni etero e autoaccusatorie, di decisiva importanza per lo sviluppo delle indagini.

Secondo il G.U.P. sarebbe applicabile agli imputati, per la condotta tenuta successivamente alla commissione dei reati, la circostanza attenuante della collaborazione ex art. 74 co. 7 del T.U. Stup. secondo la quale “Le pene previste dai commi da 1 a 6 sono diminuite dalla metà a due terzi per chi si sia efficacemente adoperato per assicurare le prove del reato o per sottrarre all’associazione risorse decisive per la commissione dei delitti“.

La circostanza suindicata deve essere dichiarata equivalente alle contestate aggravanti di cui agli artt. 74, co. 3, t.u. Stup.. 61, numero 9), e 99, quarto co., cod. pen. in virtù di quanto previsto dall’art. 69 co. 4 c.p., che esclude la prevalenza della prima sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata.

Tuttavia, per il remittente l’attenuante di cui all’art. 74, co. 7, T.U. Stup dovrebbe essere considerata prevalente sulle aggravanti contestate, nonché sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto co. cod. pen. sia per valorizzare i contributi dichiarativi degli imputati, sia per evitare un trattamento sanzionatorio non congruo.

Peraltro, la Corte Costituzionale, con precedenti pronunce, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto co. cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza, sulla recidiva reiterata, di una pluralità di circostanze attenuanti, “connesse a ipotesi delittuose di lieve entità o comunque di minor rimproverabilita’ sotto il profilo dell’elemento soggettivo, in relazione alle quali il divieto di prevalenza si tradurrebbe nell’imposizione di una pena sproporzionata al recidivo reiterato”.

In ragione di quanto esposto, il remittente chiedeva alla Corte Costituzionale di vagliare la legittimità del divieto di prevalenza nel giudizio di bilanciamento tra l’attenuante della collaborazione e l’aggravante della recidiva reiterata.

La Corte Costituzionale, come anticipato, con la sentenza n. 2021/2023 ha accolto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 69 c.p. per violazione dell’art. dell’art. 3 della Cost. per le ragioni che seguono.

Il riconoscimento della prevalenza dell’attenuante della collaborazione ex art. 74 co. 7 del T.U. Stup. sull’aggravante ex art. 99 co. 4 c.p., assicurando un trattamento di pena più mite, favorisce la dissociazione.

E’ evidente che il correo, ingolosito dalla comminazione di una pena più vantaggiosa, ha un interesse concreto a contrastare il fenomeno criminale del narcotraffico a cui ha aderito.

Peraltro, è indubbio che il contributo dei collaboratori di giustizia intranei ai sodalizi criminosi sia decisivo nello smantellamento di organizzazioni criminali.

Pertanto, il divieto di prevalenza ex art. 69 co. 4 c.p. è irragionevole in quanto pregiudica le finalità sottese al riconoscimento dell’attenuante della collaborazione.