Reato di turbativa d’asta: risponde del reato chi non dichiara i precedenti penali?

Oggi affrontiamo un caso molto interessante per tutti coloro che partecipano a gare bandite dalla Pubblica Amministrazione.

L’imputato, un imprenditore, veniva accusato del reato di turbata libertà degli incanti disciplinato dall’art. 353 c.p. per aver turbato la gara a cui partecipava in due tempi: “prima nascondendo di essere gravato da precedenti penali mediante l’occultamento della riconducibilità a sé della società con il trasferirne la rappresentanza legale e le quote sociali ad un terzo; successivamente presentando, dopo che la società era stata esclusa dalla precedente gara con annullamento in autotutela della aggiudicazione, altra domanda di partecipazione con altro soggetto giuridico, di cui era consigliere e legale rappresentante, senza dichiarare i precedenti penali suoi e di altri componenti del consiglio di amministrazione e accordandosi con il presidente del consiglio per non fare comparire nella compagine societaria la società di cui era socia una donna, il cui precedente penale avrebbe impedito la partecipazione alla gara”.

Il reato, collocato nel capo dei delitti contro la pubblica amministrazione, punisce le condotte che con violenza o minaccia, doni, promesse o collusioni o altri mezzi fraudolenti impediscono o turbano la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private ovvero ne allontanano gli offerenti.

La nozione di “mezzi fraudolenti” ha destato i maggiori dubbi. Sul punto, la giurisprudenza ha evidenziato che può rientrare nella nozione suindicata ogni attività ingannevole che sia idonea ad alterare il regolare funzionamento di una gara.

Difatti, la turbativa di una gara sussiste se il comportamento dell’agente lede il principio della libera concorrenza che la norma incriminatrice intende tutelare sia nell’interesse dei partecipanti, nei quali si è creato l’affidamento della regolarità del procedimento, sia nell’interesse dell’amministrazione.

I giudici di primo e secondo grado hanno ritenuto l’imputato colpevole del reato p. e p. dall’art. 353 c.p., tuttavia, nonostante la duplice pronuncia di condanna, il reo decideva di adire la Suprema Corte di Cassazione.

Ebbene, quest’ultima ribaltava il verdetto, pronunciando una sentenza di piena assoluzione. Nella pronuncia si chiarisce che il falso commesso non era idoneo ad alterare il regolare svolgimento della gara, atteso che la presenza o meno del requisito soggettivo (assenza di precedenti penali) incide soltanto sul diritto di partecipare alla gara, che costituisce una fase preliminare rispetto alla successiva deputata a valutare le offerte presentate.

La falsità commessa potrà integrare il delitto di falso ideologico commesso dal privato in atto pubblico, ma non collocarsi nella categoria dei “mezzi fraudolenti”, in quanto il mendacio rileva esclusivamente per l’ammissione alla gara e non può produrre effetti sul regolare svolgimento della stessa. (Cfr. Cass. Penale n. 24772/2022)

Quando il conferimento di rifiuti non tracciabili integra un’ipotesi di reato?

La vicenda che oggi voglio raccontarvi vede protagonisti alcuni privati che, in plurime occasioni, avevano conferito ingenti quantitativi di rifiuti in un impianto di recupero, celando, secondo quanto emerso dalle indagini della Direzione Distrettuale Antimafia, un traffico illecito di rifiuti metallici.

La Procura, in considerazione degli esiti delle attività di indagine, contestava il reato di cui all’art. 260 del D. Lgs. n. 152/2006, riqualificato, con la pronuncia di appello, nella fattispecie prevista dall’art. 256 del Testo Unico Ambientale.

La Corte di Appello ha ritenuto che il conferimento di rifiuti non accompagnati dai relativi formulari, effettuato dai privati che erano anche gestori dell’ impianto di recupero, secondo quanto emerso in dibattimento, era operato evidentemente nell’esercizio di un’attività imprenditoriale e, pertanto, la condotta non poteva che integrare il reato previsto dal quarto co. dell’art. 256.

La disposizione prevista dall’art. 256 sanziona al primo co. chi “effettua attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza della prescrizione, iscrizione o comunicazione…”; il quarto co. sanziona, invece, “…l’inosservanza delle prescrizioni contenute o richiamate nelle autorizzazioni, nonché nelle ipotesi di carenza dei requisiti e delle condizioni richiesti per le iscrizioni o comunicazioni”.

I ricorrenti adivano la Suprema Corte di Cassazione che, tuttavia, respingendo la tesi difensiva, in forza della quale il conferimento era stato effettuato in qualità di privati, riteneva che la condotta per la quale gli imputati erano stati condannati era pacificamente consistita “nell’avere “gestito” e “preso in carico” conferimenti di materiale non tracciabili provenienti da soggetti svolgenti attività commerciale in conto proprio o di terzi, con la consapevolezza che le dichiarazioni presentate da questi ultimi erano finalizzate esclusivamente a eludere gli obblighi di documentazione e contenevano informazioni non veritiere” (Cfr. Cass. Penale n. 33420/2021).

La condotta realizzata, invero, costituisce una precisa “deviazione” dalle modalità di esercizio dell’attività di gestione previste dall’autorizzazione, sanzionata dal legislatore dal co. 4 dell’ art. 256.

Reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui: basta il “tag”​ per condannare il writer seriale?

Oggi voglio raccontarvi la vicenda di un writer seriale condannato per il reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui ex art. 639 c.p. per aver dipinto più volte immagini sui muri di alcuni palazzi.

Senza entrare nella diatriba insorta tra coloro che ritengono che i graffiti siano delle opere d’arte contemporanea e quelli che diversamente li considerano un atto vandalico, voglio illustrarvi le peculiarità del caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 93 del 2021.

Le condotte che il reato di cui all’art. 639 c.p. intende sanzionare non includono il danneggiamento, ma soltanto quei comportamenti che sporcano o insudiciano un bene mobile o immobile e, quindi, a pieno titolo, può ricomprendersi la condotta del writer che realizza un murale.

E’ rilevante comprendere la differenza tra il danneggiamento, da un lato, e il deturpamento o l’imbrattamento, dall’altro. Il primo produce una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa; il secondo produce solo un’alterazione temporanea e superficiale della res, il cui aspetto originario, quale che sia la spesa da affrontare, è comunque facilmente reintegrabile.

Passando all’analisi del reato, il primo comma dell’art. 639 c.p. sanziona la condotta perpetrata su cose mobili altrui con la comminazione di una multa. Il secondo comma sanziona la condotta commessa su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati l’autore del reato con la reclusione da uno a sei mesi. Infine, se i comportamenti illeciti ricadono su beni di interesse storico o artistico è prevista la pena della reclusione da tre mesi a un anno e una multa. Emerge, quindi, una gravità crescente della pena in relazione all’importanza dei beni oggetto di tutela.

Il giudice, nel caso di pronuncia di condanna, può disporre l’obbligo di ripristino e ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenere le spese o di rimborsare quelle a tal fine sostenute ovvero la prestazione di attività non retribuite a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla pena sospesa.

Nel nostro caso il writer veniva identificato attraverso il tag ovvero la firma che gli autori dei murales lasciano, il più delle volte, in un angolo dell’opera e, sulla base di tale unico elemento, veniva emessa nei suoi confronti pronuncia di condanna per il reato suindicato.

Ritenendo la pronuncia ingiusta, il reo, mediante il suo difensore, adiva la Suprema Corte di Cassazione evidenziando che l’assenza di video riprese sul luogo o di dichiarazioni testimoniali idonee a comprovare che fosse l’autore del graffito avrebbero dovuto indurre il giudice di appello ad emettere una sentenza di assoluzione.

Il ricorso veniva dichiarato inammissibile in quanto la pubblica accusa aveva fornito la prova di un collegamento stabile tra il tag e l’autore del graffito, rinvenendo su facebook un profilo del reo che conteneva lo stesso tag e, poi, sul profilo della fidanzata era stata pubblicata la foto di un graffito in cui era presente la medesima firma.

Truffa all’ASL: quando il medico risponde penalmente nei confronti dell’Ente Pubblico?

La vicenda eticamente censurabile che oggi voglio raccontarvi vede protagonisti due fratelli gemelli, medici di base, convenzionati con il Servizio sanitario nazionale.

I fratelli con artifici e raggiri consistiti per uno dei due nel dirottare sistematicamente i propri assistiti all’altro fratello che effettuava visite mediche al posto del fratello e, al contempo, falsificava la firma sulle ricette di prescrizione riservate al primo con il nome di questo ed utilizzando il suo timbro, inducevano in errore l’Asl.

Mediante questi stratagemmi il primo dei due fratelli aveva conseguito un ingiusto profitto consistito nel percepire il compenso spettante dal servizio sanitario nazionale con pari danno economico per l’amministrazione pubblica, determinato in oltre 400 mila euro nonché nella percezione degli ulteriori benefici economici di legge.

In primo e secondo grado i due medici venivano condannati per i reati di cui agli artt. 481 (falso in certificazioni) e 640 co. 2 n. 1 (truffa in danno di un ente pubblico) c.p.

La Corte di Cassazione adita dai ricorrenti annullava la pronuncia di condanna ritenendo indimostrato il danno patrimoniale e rinviava la causa alla Corte di Appello per un nuovo giudizio, che si concludeva con una pronuncia di prescrizione del reato.

I ricorrenti, tuttavia, si rivolgevano nuovamente al Supremo Collegio che, accogliendo la tesi difensiva, emetteva sentenza di piena assoluzione.

Sembra assurdo ma è così!

Ebbene, i difensori dei ricorrenti lamentavano che la pubblica accusa non avesse dimostrato la sussistenza del danno patrimoniale e, cioè, la compromissione della funzionalità e dell’efficienza del servizio reso ai pazienti.

Dal momento che entrambi i medici erano convenzionati con l’Asl il danno patrimoniale per l’ente poteva integrarsi soltanto nel caso di espletamento di una prestazione qualitativamente inferiore rispetto a quella prevista.

Ebbene, la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (n. 22777/2022), nell’accogliere la tesi difensiva, ha affermato il principio di cui sopra. In particolare, pur rilevando che secondo la giurisprudenza (Cass. pen. sez. II, n. 44677 del 20/10/2015, R., CED Cass. 265340), “è innegabile che l’indebita sostituzione di un medico convenzionato, ma dedito ad attività professionale privata, con altro anch’egli convenzionato, con la contraffazione delle ricette mediche ad apparente firma e timbro di un altro, costituisce condotta idonea a trarre artificiosamente in inganno il S.S.N., ha, tuttavia, ulteriormente rilevato che, essendo entrambi i medici convenzionati con l’Azienda sanitaria locale, l’elemento di fattispecie del danno patrimoniale, necessario per integrare il delitto di truffa, poteva dirsi integrato solo ove fosse dimostrato che nel caso di specie fosse stato fornito un servizio diverso da quello richiesto, alla luce dei requisiti pretesi dal S.S.N. per la convenzione con il medico di base. In sostanza, per valutare se l’ASL abbia subito o meno un danno patrimoniale, occorre verificare se i pazienti abbiano comunque ricevuto l’assistenza medica conforme all’aspettativa riposta dall’Ente pubblico rispetto alla funzionalità del servizio come prevista dalla convenzione, nel qual caso il danno economico dovrà ritenersi insussistente, oppure se l’assistenza medica fornita ai pazienti non corrisponda ai parametri di funzionalità richiesti, nel qual caso il danno economico è costituito dalla corresponsione dei compensi per prestazioni diverse”.

Omicidio stradale e abbagliamento da raggi solari del conducente

Oggi affrontiamo una situazione ricorrente per gli automobilisti, ai quali capita non di rado di trovarsi alla guida in condizioni di non perfetta visibilità per l’insorgenza, anche improvvisa, di fattori atmosferici.

Basti pensare ad un’improvvisa grandinata o, come nel caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 18748/2022, all’abbagliamento da raggi solari.

Nel caso sottoposto al vaglio del Supremo Consesso il conducente di un autoveicolo, condannato per il reato di omicidio stradale ex art. 589 bis c.p., sosteneva che l’investimento del pedone, da cui era derivato un esito infausto, era dipeso da un improvviso abbagliamento da raggi solari che, di fatto, non gli aveva consentito di evitare l’urto, rivelatosi purtroppo fatale.

Nella sostanza il ricorrente evidenziava che la pronuncia di condanna confermata in appello era censurabile nella parte in cui non aveva riconosciuto il caso fortuito ex art. 45 c.p.

Per “caso fortuito” si intende, secondo la prevalente giurisprudenza, un evento naturalistico imprevedibile e eccezionale che, tuttavia, in diverse pronunce, è stato escluso in ipotesi di scoppio del pneumatico e blocco del volante, mentre nel caso di improvviso malore o colpo di sonno il reato è stato assolto per assenza di colpa.

Si precisa, però, che gli orientamenti della giurisprudenza sono piuttosto eterogenei.

Nel caso in esame, la Suprema Corte di Cassazione ha respinto il ricorso rilevando che, sebbene il pedone avesse attraversato in corrispondenza di un intersezione e, quindi, in violazione dell’ art. 190 del Codice della Strada e la velocità del veicolo fosse moderata, il conducente non soltanto percorreva un tratto rettilineo ma l’abbagliamento da raggi solari avrebbe dovuto indurlo quantomeno a rallentare per scongiurare la situazione di pericolo.

Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente: il caso Fedez

Oggi sento il bisogno di spiegare, in poche righe, il “caso Fedez”, scoppiato quando il cantautore ha pubblicato su Instagram la registrazione di una conversazione intercorsa con alcuni dirigenti Rai, che avevano cercato di indurlo a modificare il testo del discorso sul Ddl Zan preparato in occasione del concerto del primo Maggio.

Il comportamento di Fedez potrebbe integrare gli estremi del reato p. e. p dall’art. 617 septies c.p. che sanziona la condotta di chi “al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione, è punito con la reclusione fino a quattro anni. La punibilità è esclusa se la diffusione delle riprese o delle registrazioni deriva in via diretta ed immediata dalla loro utilizzazione in un procedimento amministrativo o giudiziario o per l’esercizio del diritto di difesa o del diritto di cronaca“.

La disposizione in esame, introdotta dal D. Lgs. n. 216/2017, prevede, in primis, una ripresa audio o video di incontri privati ovvero una registrazione di conversazioni, anche telefoniche o informatiche. In secondo luogo, la ripresa o la registrazione devono essere fraudolente, ovvero realizzate con l’inganno, all’insaputa del soggetto ripreso o registrato. Infine, la condotta assume rilevanza penale soltanto in caso di diffusione di dette riprese o conversazioni.

La diffusione segna il momento consumativo del delitto e deve ritenersi integrata quando le immagini o le comunicazioni siano trasmesse a terze persona. E’ richiesta, sotto il profilo soggettivo, l’intenzione di arrecare un pregiudizio all’altrui reputazione o all’immagine.

Ferme queste premesse, dalla ricostruzione della vicenda emerge che il motivo che aveva spinto il cantautore a pubblicare la registrazione su Instagram era da ricercare in motivazioni ideologiche e, pertanto, risultava del tutto assente l’intenzione di ledere la reputazione dei dirigenti Rai.

Fedez intendeva denunciare un sistema televisivo non soltanto asservito alla politica ma che impediva, di fatto, un’informazione imparziale o comunque libera da condizionamenti.

Quindi, da un lato, la condotta potrebbe risultare assente il dolo specifico ovvero l’intenzione di ledere l’altrui reputazione e, dall’altro, sebbene Fedez non sia un giornalista, non può escludersi immediatamente che il comportamento tenuto ben poteva essere considerato come legittimo esercizio del diritto di cronaca.

Dimenticavo, la Rai ha poi deciso di non sporgere alcuna denuncia/querela nei confronti del cantautore, probabilmente è stata consigliata da un buon avvocato o forse la situazione era diventata ingestibile.

Omissione di soccorso e obbligo di assistenza…

Questa sera i miei occhi sono stati colpiti da una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione (n. 20039/2022) che ha illustrato, in modo chiaro, gli elementi costitutivi del reato di omissione di soccorso ex art. 189 co. 7 del del d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285.

La disposizione in esame prevede che “chiunque nelle condizioni di cui al comma 1, non ottempera all’obbligo di prestare l’assistenza occorrente alle persone ferite, è punito con la reclusione da un anno a tre anni. Si applica la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida per un periodo non inferiore ad un anno e sei mesi e non superiore a cinque anni, ai sensi del capo II, sezione II, del titolo VI”.

Il richiamo al co. 1 dell’art. 189 è determinante in quanto consente di rilevare che l’obbligo di assistenza non ricade soltanto sul responsabile del sinistro, bensì su chiunque si trovi coinvolto in un incidente, come desumibile dall’espressione “in caso di incidente comunque ricollegabile al suo comportamento”.

Difatti, la giurisprudenza ritiene che il soggetto coinvolto nel sinistro ricopra una posizione di garanzia a tutela degli altri utenti coinvolti dal pericolo derivante da un ritardato soccorso. Il dovere di assistenza non può ricadere soltanto sul responsabile del sinistro, in quanto quest’ultimo potrebbe coincidere con il soggetto che necessita l’assistenza che, peraltro, deve essere intesa in senso ampio e, pertanto, non può essere limitata al soccorso sanitario.

Ferme queste premesse, occorre evidenziare che, nel caso affrontato dal Supremo Consesso, l’imputato era stato dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 189 sia in primo grado sia in appello, in quanto alla guida di un’autovettura aveva operato una inversione di marcia costringendo un motociclista che, si trovava sulla corsia opposta, ad effettuare una repentina manovra per evitare l’impatto. Quest’ultimo non riuscendo a controllare il motociclo aveva impattato un’altra vettura che proveniva nell’altra carreggiata.

A seguito dell’urto il motociclista rovinava a terra.

Il responsabile del sinistro, come riferito da diversi testimoni, si era fermato avvicinandosi al motociclista, ma pochi minuti dopo era ripartito senza attendere l’arrivo dell’ambulanza.

La Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia suindicata ha confermato la sentenza di condanna emessa in appello, osservando che il dovere di assistenza ha un contenuto ampio dal momento che non vi rientra soltanto il soccorso sanitario, bensì ogni tipo di aiuto che le circostanze richiedano.

Nel caso affrontato è pur vero che il ricorrente si era fermato, ma non aveva prestato alcuna forma di aiuto, né si era sincerato che altri avessero soccorso il conducente del motociclo fornendo adeguata assistenza.

La mera detenzione di stupefacenti è sufficiente a dimostrare la finalità di spaccio?

Con una recente pronuncia (Cass. Penale n. 16810/2022) la Suprema Corte di Cassazione ha risposto al quesito che segue: la prova della finalità di spaccio è desumibile dal quantitativo di droga superiore al limite tabellare previsto dall’ art. 73 del D.P.R. n. 309/90?

Prima di rispondere al quesito, occorre premettere che i protagonisti della vicenda giudiziaria esaminata dalla Suprema Corte di Cassazione sono due ragazzi arrestati a seguito di una perquisizione, in quanto trovati nel possesso di marjuana, hashish e cocaina. Condannati in primo grado per il reato ex art. 73 del D.P.R. n. 309/90, la sentenza veniva riformata dalla Corte di Appello di Roma che assolveva uno dei due appellanti.

Luca, nome di fantasia, decideva di ricorrere davanti alla Suprema Corte di Cassazione, rilevando che la pronuncia non aveva dimostrato che il quantitativo di stupefacente rinvenuto fosse destinato allo spaccio. Sosteneva, difatti, che il possesso di un bilancino di precisione costituirebbe elemento oltremodo equivoco, assolutamente non degno di considerazione, in quanto si tratterebbe di un normale bilancino elettronico uso-cucina rinvenibile presso ogni famiglia e come tale non fruibile per l’uso che la Corte ha ritenuto apoditticamente ne facesse il ricorrente. Evidenziava, altresì, che il quantitativo complessivamente cospicuo dello stupefacente (grammi 6,6 di cocaina e grammi 67,5 di marijuana) è indicato in assenza di una valutazione tecnico-scientifica sul dato. Infine, sosteneva che la modestia degli introiti dell’attività del condannato, le cui condizioni soggettive consentirebbero di ritenere tranquillamente assente la volontà di incrementare i propri introiti attraverso la cessione della droga, ben potevano escludere la finalità di spaccio.

In relazione al quantitativo di stupefacente, rileva la Suprema Corte che in tema di sostanze stupefacenti, il solo dato ponderale dello stupefacente rinvenuto e l’eventuale superamento dei limiti tabellari indicati dall’ art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 non determina alcuna presunzione di destinazione della droga ad un uso non personale, dovendo il giudice valutare globalmente, anche sulla base degli ulteriori parametri normativi se, assieme al dato quantitativo, le modalità di presentazione e le altre circostanze dell’azione siano tali da escludere una finalità meramente personale della detenzione. Allo stesso tempo, il possesso di un quantitativo di droga superiore al limite tabellare previsto dal D.P.R. n. 309/1990, se da solo non costituisce prova decisiva dell’effettiva destinazione della sostanza allo spaccio, può comunque legittimamente concorrere a fondare, unitamente ad altri elementi, tale conclusione.

Conclude la sentenza che il considerevole numero di dosi ricavabili, ben può essere ritenuto un indizio della destinazione della droga ad un uso non esclusivamente personale e, se è accompagnato da altri elementi (il possesso del bilancino, la pluralità e diversità di sostanze detenute, la sproporzione tra le possibilità economiche dell’imputato ed una siffatta scorta) costituire valida motivazione per escludere l’utilizzo dello stupefacente, in tutto o in parte, ad uso esclusivamente personale.

Mi dispiace per Luca ma la tesi difensiva non è stata accolta.

Minaccia l’amante per un rapporto sessuale e per soldi: tentata estorsione o tentata violenza sessuale?

La storia che voglio raccontarvi ha come protagonisti un uomo e una donna che intrattengono una relazione extraconiugale segreta ai rispettivi coniugi. Un giorno però lui, che chiameremo Claudio, inizia a minacciare l’amente, che chiameremo Serena, per costringerla ad avere dei rapporti sessuali e, al contempo, le richiede una somma di denaro per non rivelare al marito la relazione amorosa.

Serena dopo le reiterate minacce patite decide di denunciare Claudio per il reato di tentata violenza sessuale. Il reato in esame previsto dall’art. 609 bis c.p. punisce con la reclusione da sei a dodici anni la condotta di chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali. Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:

1) abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;

2) traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.

Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.

Claudio sceglie di patteggiare la pena e, poi, di ricorrere davanti alla Suprema Corte di Cassazione, rilevando che la condotta addebitatagli era stata erroneamente sussunta nel reato di violenza sessuale nella forma tentata ritenendo, invece, presenti gli elementi costitutivi del reato di tentata estorsione ex art. 629 c.p.

Il giudice avrebbe commesso un errore nella qualificazione della condotta contestata.

La fattispecie ex art. 629 c.p. punisce con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000 la condotta di chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La pena è della reclusione da sette a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente.

Ebbene, in entrambi i reati ricorrono in via alternativa gli elementi della minaccia e della violenza da cui deve discendere la costrizione della vittima, tuttavia, occorre notare che nella fattispecie di cui all’art. 609 bis c.p. la violenza o minaccia coarta sono rivolte a limitare la libertà sessuale altrui con la finalità di appagare la propria libido sessuale e risulta estranea alla sfera patrimoniale del soggetto passivo.

Nel reato di estorsione, invece, la condotta dell’autore, connotata da violenza o minaccia, è diretta ad ottenere un ingiusto profitto. Emerge, quindi, che il primo reato si pone in rapporto di specialità con il secondo.

La Cassazione, nel disattendere la tesi difensiva, con la pronuncia n. 17717/2022, ha confermato il principio di cui sopra secondo cui “è configurabile il tentativo del delitto di violenza sessuale quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo denoti il requisito soggettivo dell’intenzione di raggiungere l’appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell’idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale”.

Claudio dovrà quindi scontare la pena concordata per il reato di tentata violenza sessuale.

Quando il trasferimento di somme verso società estere per acquistare bitcoin integra il reato di autoriciclaggio?

Oggi parliamo di un fenomeno in forte ascesa che, sempre più spesso, si caratterizza per la commissione di condotte che vedono la partecipazione di soggetti stranieri.

Mi riferisco, andando subito al dunque, alla fattispecie penale di autoriciclaggio prevista dall’art. 648 ter1 c.p., che sanziona la condotta di colui che avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative, il denaro, i beni o le altre utilità proveniente dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolarne concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

La disposizione in esame è stata introdotta dall’art. 3 co. 3 della L. n. 186/2014; il reato è integrato da ogni condotta che sia idonea ad ostacolare l’identificazione della provenienza del denaro. Si tratta di un reato proprio dal momento che la persona che ha commesso il reato presupposto o ha concorso alla sua commissione è la stessa che porrà in essere le condotte di impiego, sostituzione o trasferimento dirette ad ostacolare l’identificazione della provenienza del denaro.

Il caso affrontato dalla pronuncia della Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 2868/2022 riguarda il trasferimento verso società estere, operanti nel settore delle criptovalute (bitcoin), di somme, conseguite attraverso lo svolgimento di un’attività di favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, tramite bonifici in euro effettuati da carte Postepay intestate per lo più a soggetti prestanome e al ricorrente.

Quest’ultimo, persuaso della liceità dell’operazione, adiva la Suprema Corte di Cassazione per ottenere l’annullamento dell’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva disposto il sequestro preventivo per il reato di autoriciclaggio, sostenendo che il trasferimento delle somme non aveva il fine di “reinvestire” i proventi del reato presupposto ma di “acquistare” cripto valute che sarebbero servite per “pagare i servizi del sito internet che effettuava la pubblicità delle prostitute”. Mancava, quindi, l’intenzione e il compimento di azioni idonee ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa delle somme.

La Suprema Corte di Cassazione non ha accolto la tesi del ricorrente evidenziando che, “in tema di autoriciclaggio, l’intervenuta tracciabilità, per effetto delle attività di indagine poste in essere dopo la consumazione del reato, delle operazioni di trasferimento delle utilità provenienti dal delitto presupposto non esclude l’idoneità “ex ante” della condotta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

La pronuncia n. 2868 /2022 ha ritenuto che l’operazione di “trasferimento” effettuata dal reo servendosi di società estere, che effettuavano professionalmente il cambio della valuta, nella specie da euro in bitcoin, inserendo, pertanto, nel circuito economico-finanziario, gli euro di provenienza illecita poi utilizzati (“cambiati”) per l’acquisto di bitcoin, integrava compiutamente il reato di autoriciclaggio.

L’attività di cambio della valuta deve infatti essere attribuito carattere finanziario, tanto che in Italia essa è regolamentata dalla legge ed il soggetto che la esercita deve essere iscritto in appositi registri.