La vicenda giudiziaria scelta per la rubrica “Dialoghi penali” affronta il complesso tema e il correlato inquadramento normativo della vendita o messa in commercio di sostanze alimentari adulterate soltanto apparentemente genuine.
A seguito di una complessa attività investigativa veniva individuata dagli inquirenti un’ organizzazione criminale che acquistava vino di scarsa qualità, aggiungeva a questo alcool per aumentarne la gradazione, lo imbottigliava e lo metteva in vendita in modo tale da farlo apparire di pregio, falsificando le fascette, le relative indicazioni geografiche e le denominazioni di origine, i relativi marchi e il contrassegno ministeriale previsto per i vini DOC e DOCG.
In primo grado, il Tribunale recepiva in toto quanto prospettato dalla P.A., emettendo sentenza di condanna per differenti ipotesi di reato, pronuncia confermata in sede di appello.
La questione affrontata dalla Suprema Corte di Cassazione con la pronuncia n. 13767/2024 è di particolare interesse in quanto vaglia la configurabilità del reato di cui all’art. 516 c.p.
La disposizione in esame sanziona con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino ad € 1.032,00 la condotta di messa in vendita o in commercio di sostanze alimentari soltanto apparentemente genuine.
Tra i differenti motivi di censura sollevati con il ricorso per cassazione da uno degli imputati, veniva contestata l’applicabilità della norma penale ex art. 516 c.p. per il rapporto di specialità esistente tra questa e l’art. 33, co. 2, della l. n. 82 del 2006.
La Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il motivo formulato dalla difesa dell’imputato, rilevando che il secondo co. del citato art. 33, sanziona la condotta di chi, nella fase della vinificazione o della successiva manipolazione del prodotto, “impiega in tutto o in parte prodotti non consentiti, quali alcol, zuccheri o materie zuccherine o fermentate diverse da quelle provenienti dall’uva fresca anche leggermente appassita”.
La condotta descritta dall’art. 516 cod. pen., invece, esula da ogni attività di adulterazione del prodotto (in sé considerata) e attiene alla sola (successiva) fase della commercializzazione.
Si tratta, pertanto, di due fattispecie differenti, che hanno in comune solo l’oggetto materiale del reato (il vino adulterato, quale sostanza alimentare non genuina), ma che differiscono radicalmente nella descrizione della condotta: l’una afferente alla pregressa fase della adulterazione e, l’altra, a quella successiva della commercializzazione.
In questi termini, quindi, contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa, alcun rapporto di specialità può prospettarsi tra le due norme.