La vicenda giudiziaria decisa dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 38678/2023 ha affrontato la complessa questione della rilevanza probatoria dei messaggi inviati a mezzo WhatsApp.
Nel caso vagliato dal Supremo Consesso veniva contestato all’imputato il reato di maltrattamenti, per il quale la Corte di Appello aveva emesso sentenza di assoluzione, valorizzando proprio alcuni messaggi scambiati con la persona attraverso l’app.
La difesa della parte civile aveva proposto ricorso avverso la sentenza di assoluzione, lamentando che i messaggi non erano stati acquisiti secondo una metodologia corretta, atteso che la mera stampa non ha valore probatorio in sé, se non viene effettuata una perizia sul dispositivo telefonico utilizzato.
La Suprema Corte nel rigettare il ricorso ha osservato che i messaggi sono inquadrabili nel novero dei documenti acquisibili ex art. 234 c.p.p., e che l’acquisizione del supporto telefonico presuppone un’attenta valutazione, tenendo conto della credibilità della persona offesa e dell’attendibilità delle sue dichiarazioni accusatorie. (Cfr. Cass. Penale n. 2658/2021)
Giova rilevare che la difesa della parte civile non aveva contestato i contenuti delle conversazioni in sé considerati e la loro idoneità, come ritenuto dalla Corte di appello, a condurre ad una rivalutazione del quadro probatorio rispetto alla sentenza di primo grado.
Inoltre, non aveva sviluppato argomentazioni circa la non decisiva rilevanza, nella prospettiva della assoluzione, dei contenuti delle conversazioni via WhatsApp acquisite.