Il decesso di una paziente di 90 anni a causa di una perforazione dell’intestino durante una colonscopia, eseguita da un endoscopista e prescritta da un medico di famiglia, ci consente di affrontare un tema molto sentito nel campo della colpa medica.
Mi riferisco, senza giri di parole, alla cooperazione multidisciplinare tra professionisti che, in questo caso, sono stati chiamati a rispondere in concorso del reato di omicidio colposo per aver il primo prescritto un esame non soltanto invasivo, ma non adeguato ai sintomi della paziente e il secondo, l’endoscopista, per aver avallato in modo automatico la precedente valutazione.
Quest’ultimo, condannato in primo e secondo grado, adiva la Suprema Corte di Cassazione, sostenendo che, essendo stata già effettuata da un collega una valutazione circa la necessità dell’esame, non dovesse valutare nuovamente l’adeguatezza e il rapporto tra i rischi che per quella tipologia di paziente comportava l’esame che andava ad effettuare rispetto alla sintomatologia che lamentava, né fosse suo compito vagliare eventuali diverse e meno invasive opzioni diagnostiche.
La Corte, tuttavia, ha rigettato il ricorso, rilevando che in tema di colpa professionale, laddove sussista un’ipotesi di cooperazione multidisciplinare, anche non contestuale, ciascuno dei sanitari è tenuto ad operare un autonomo esame del rischio collegato alla procedura da svolgere.
L’endoscopista davanti alla prescrizione di un collega peraltro non specialista non poteva esimersi dall’effettuare un’autonoma valutazione, tale da indurlo a scegliere una procedura meno invasiva e adeguata ai sintomi riferiti dalla paziente che peraltro, come evidenziato, era in età avanzata.
Tale omissione costituisce una concausa dell’evento infausto e, per tale ragione, il ricorso dell’endoscopista non è stato accolto, con conferma integrale della pronuncia di condanna (Cfr. Cass. Penale n. 30051/2022).