Oggi voglio raccontarvi la vicenda di un writer seriale condannato per il reato di deturpamento e imbrattamento di cose altrui ex art. 639 c.p. per aver dipinto più volte immagini sui muri di alcuni palazzi.
Senza entrare nella diatriba insorta tra coloro che ritengono che i graffiti siano delle opere d’arte contemporanea e quelli che diversamente li considerano un atto vandalico, voglio illustrarvi le peculiarità del caso affrontato dalla Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 93 del 2021.
Le condotte che il reato di cui all’art. 639 c.p. intende sanzionare non includono il danneggiamento, ma soltanto quei comportamenti che sporcano o insudiciano un bene mobile o immobile e, quindi, a pieno titolo, può ricomprendersi la condotta del writer che realizza un murale.
E’ rilevante comprendere la differenza tra il danneggiamento, da un lato, e il deturpamento o l’imbrattamento, dall’altro. Il primo produce una modificazione della cosa altrui che ne diminuisce in modo apprezzabile il valore o ne impedisce anche parzialmente l’uso, così dando luogo alla necessità di un intervento ripristinatorio dell’essenza e della funzionalità della cosa stessa; il secondo produce solo un’alterazione temporanea e superficiale della res, il cui aspetto originario, quale che sia la spesa da affrontare, è comunque facilmente reintegrabile.
Passando all’analisi del reato, il primo comma dell’art. 639 c.p. sanziona la condotta perpetrata su cose mobili altrui con la comminazione di una multa. Il secondo comma sanziona la condotta commessa su beni immobili o su mezzi di trasporto pubblici o privati l’autore del reato con la reclusione da uno a sei mesi. Infine, se i comportamenti illeciti ricadono su beni di interesse storico o artistico è prevista la pena della reclusione da tre mesi a un anno e una multa. Emerge, quindi, una gravità crescente della pena in relazione all’importanza dei beni oggetto di tutela.
Il giudice, nel caso di pronuncia di condanna, può disporre l’obbligo di ripristino e ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenere le spese o di rimborsare quelle a tal fine sostenute ovvero la prestazione di attività non retribuite a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla pena sospesa.
Nel nostro caso il writer veniva identificato attraverso il tag ovvero la firma che gli autori dei murales lasciano, il più delle volte, in un angolo dell’opera e, sulla base di tale unico elemento, veniva emessa nei suoi confronti pronuncia di condanna per il reato suindicato.
Ritenendo la pronuncia ingiusta, il reo, mediante il suo difensore, adiva la Suprema Corte di Cassazione evidenziando che l’assenza di video riprese sul luogo o di dichiarazioni testimoniali idonee a comprovare che fosse l’autore del graffito avrebbero dovuto indurre il giudice di appello ad emettere una sentenza di assoluzione.
Il ricorso veniva dichiarato inammissibile in quanto la pubblica accusa aveva fornito la prova di un collegamento stabile tra il tag e l’autore del graffito, rinvenendo su facebook un profilo del reo che conteneva lo stesso tag e, poi, sul profilo della fidanzata era stata pubblicata la foto di un graffito in cui era presente la medesima firma.